Il Monetarismo si sviluppa contemporaneamente con la generalizzazione della Sintesi neoclassica – tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60 – ma, rispetto a questa, che ambiva fra molte ambiguità a collocarsi nel solco keynesiano, la Scuola monetarista si pone in netta antitesi.
La Scuola si inscrive nel filone di pensiero che, dal lato dell’analisi della società, pone questa come un amalgama di individui omogenei, indistinguibili fra loro per occupazione economica.
Chiunque persegue indifferentemente il massimo possibile di utilità, ripartendo il proprio reddito in modo ottimale fra impieghi complementari.
Gli individui operano nel contesto di un mercato ‘perfetto’, vale a dire un mercato in cui vigono concorrenza pura, trasparenza e flessibilità. Come per i neoclassici anche per i monetaristi, quindi, il mercato tende a portarsi verso un assetto nel quale non insistono squilibri fra domanda e offerta.
L’enfasi è riposta sul ruolo della moneta. L’offerta di moneta presente nel circuito economico è esogena. Essa è determinata dall’autorità monetaria. Il volume del credito bancario è un multiplo – rigido – della base monetaria creata dalla banca centrale. (La ‘moneta creditizia’ varia in modo strettamente proporzionale alla base monetaria). Inoltre la banca centrale, tramite la fissazione del tasso d’interesse, può sempre controllare la quantità di moneta presente nel mercato.
Come gli altri beni, anche la moneta trattenuta – o domandata individualmente – dai soggetti economici soggiace alla legge dell’utilità marginale. Di conseguenza, non si può escludere una domanda di moneta per fini speculativi – o un portafoglio titoli – dipendente dal tasso di interesse, ma si può escludere che essa tenda a portarsi verso valori eccessivi.
Nel lungo periodo la velocità di circolazione della moneta può essere considerata stabile e così, la moneta ‘riacquista’ le proprietà della ‘teoria quantitativa’ di stampo neoclassico (Eventuali oscillazioni della velocità di circolazione sono limitate al breve periodo).
Particolarmente rilevante è l’effetto delle scelte individuali rivolte all’allocazione delle risorse fra moneta liquida e beni di consumo quando esso viene rapportato, nell’ottica monetarista, al sistema economico.
La moneta è soggetta, come gli altri beni, alla legge dell’ utilità marginale decrescente: il bisogno di moneta va diminuendo, fino ad annullarsi, al crescere della quantità domandata. La domanda di moneta deve essere effettuata fino al punto in cui, eseguita la distribuzione delle risorse a disposizione fra impieghi diversi, l’utilità marginale della moneta è uguale a quella di qualunque altro bene. In particolare, la domanda di moneta individuale dipende dal ‘reddito permanente’, considerabile come una media dei flussi di reddito presenti e futuri. (Conta, per i secondi, il valore attuale, al tasso di interesse corrente, di tutti i flussi di reddito previsti in futuro).
Presupposto il funzionamento del principio dell’utilità marginale, è escluso un bisogno di moneta per fini speculativi tendente all’infinito, nonostante sussista – come accennato – una certa dipendenza della domanda di moneta dal tasso dell’interesse. Tale fattore, secondo i monetaristi, ha conseguenze soltanto nel breve termine. Nel breve periodo, dunque, la velocità di circolazione della moneta oscilla in funzione del tasso dell’interesse e delle variazioni del reddito. Nel lungo termine il reddito degli agenti economici è sostanzialmente stabile e la velocità di circolazione della moneta è costante.
Il ragionamento si conchiude con la logica conseguenza che il sistema economico è fondamentalmente stabile, tanto più se si assume quale ipotesi rafforzativa il suo riequilibrio intrinseco, operante tramite vari automatismi di aggiustamento. (In particolare, gli stimoli di prezzo sono efficaci perché la domanda di ciascun bene è elastica rispetto al suo prezzo).
Secondo la Scuola monetarista, in una situazione di disoccupazione, di salari e quindi di prezzi in caduta, si crea un incremento della liquidità reale. Ciò comporta, a livello individuale, il desiderio di distribuire equamente la liquidità addizionale fra beni di consumo e scorte monetarie, uguagliandone le utilità marginali. Aumenta così la domanda globale e si ripristina l’equilibrio precedente il calo dell’occupazione.
Le imprese vengono indotte ad incrementare la produzione. Ne segue un incremento del reddito, che raggiunge il livello ottimale. La domanda uguaglia l’offerta. Si tratta di un processo di aggiustamento che il mercato, date le ipotesi poste alla base del modello, è spontaneamente in grado di assicurare. Inutile, in un simile contesto, attuare un intervento di politica monetaria.
La moneta è neutrale e – come detto – permane la validità della ‘teoria quantitativa’. Milton Friedman – il corifeo del Monetarismo – ha sostenuto che la relazione fra bisogno di liquidità e tasso dell’interesse è rigida nel lungo periodo.
Ciò perché la moneta è qualcosa di diverso rispetto alle attività finanziarie e come tale non può essere sostituita con titoli se non entro certi limiti. All’aumentare del tasso di interesse, quindi, la domanda di moneta non può diminuire di molto (non sarà perfettamente sostituita da attività finanziarie); viceversa, al diminuire del saggio di interesse, la domanda di moneta non può diventare infinita. (Diversamente rispetto al quadro teorico di Keynes, qui è sempre all’opera il meccanismo di massimizzazione delle utilità).
E’ esclusa l’ipotesi della ‘trappola della liquidità’, in quanto l’effetto ricchezza dovuto alla deflazione – che consiste in liquidità aggiuntiva ‘reale’ – agisce sempre e comunque, anche laddove la politica monetaria non è efficace.
Il Monetarismo riafferma, insomma, il presupposto della generale stabilità del sistema di libero mercato. Oltre a quanto abbiamo visto, il tratto dirompente della teoria monetarista è il ruolo che le aspettative ricoprono nel comportamento degli agenti economici.
I soggetti della vita economica agiscono in ‘assenza di illusione monetaria’: vale a dire che ragionano in termini di prezzi relativi e non in termini di prezzi assoluti. In particolare, sul mercato del lavoro ciò comporta che sia gli imprenditori che i lavoratori assumano le loro decisioni sulla base del salario reale. Per fare questo devono però formarsi delle aspettative circa il salario reale atteso ed i prezzi futuri. (Anche se va distinto che gli imprenditori, i quali possono assumere decisioni circa la fissazione dei prezzi, possono conoscere entrambe le variabili).
Nella teoria monetarista non esiste una relazione stabile nel tempo fra saggio di disoccupazione e saggio di inflazione, come è implicito nella nota curva di Phillips. Si ricordi che su tale base era ritenuta possibile da parte dei neokeynesiani – tenendo conto della relazione inversa fra le due variabili – l’implementazione di una politica economica che permettesse il raggiungimento dell’obiettivo di occupazione desiderato. Come è noto, in un normale quadro di relazioni industriali i contratti di lavoro scadono e vengono periodicamente rinnovati.
Nel mercato del lavoro l’offerta è funzione del salario nominale deflazionato dal livello dei prezzi atteso al momento della contrattazione e la domanda di lavoro dipende dal salario nominale al netto dei prezzi correnti.
Nella prospettiva monetarista, se la domanda e l’offerta di lavoro dipendono dal salario reale, si verifica che se i prezzi correnti si discostano dai prezzi attesi si determina una posizione di squilibrio. Ne segue, nel breve periodo, un livello di reddito e di occupazione diverso rispetto a quello ottimale (o naturale). E questo giustifica un intervento di stabilizzazione, perlomeno fino al momento della successiva tornata contrattuale.
Se, per esempio – rispetto ad un dato livello iniziale – la disoccupazione scende, aumenta il tasso di inflazione, ma ciò comporta un calo dei salari reali. Allora, i lavoratori cercheranno di ristabilire il potere d’acquisto perduto e, al fine di mantenere invariato il livello del salario reale che avevano in corrispondenza del saggio di disoccupazione iniziale, in occasione della successiva contrattazione chiederanno un incremento salariale pari al livello formulato sulla base delle aspettative ‘adattive’ – (le aspettative del periodo precedente corrette, in una qualche misura, dell’errore commesso) – che si sono formate.
Ma, ancora una volta – nell’ottica monetarista – si genererà un’impennata inflazionistica e dunque una restrizione del salario reale. La domanda di lavoro aumenterà e il saggio di disoccupazione scenderà ancora. In occasione della successiva ricontrattazione i lavoratori chiederanno aumenti salariali che tenteranno di ristabilire il precedente salario reale e, di nuovo, si giungerà a un ulteriore incremento inflazionistico.
Il tasso di disoccupazione naturale è quel livello di disoccupazione a cui corrisponde un’inflazione pari a zero. Di conseguenza, in corrispondenza di tale livello anche le aspettative di aumento dei prezzi si attestano a zero. In questo caso vi è coincidenza fra previsioni e inflazione effettiva. Invece, finché ci sarà un aggiustamento delle aspettative si verificherà sempre un’accelerazione del tasso di inflazione.
Tuttavia, come per gli altri mercati, anche nel caso del mercato del lavoro – secondo la scuola monetarista –, a lungo andare le aspettative si adattano bene al tasso effettivo di inflazione. (Ricordiamo che gli individui sono fondamentalmente razionali). Dunque, la già citata relazione inversa fra disoccupazione e inflazione scompare e il tasso di disoccupazione si attesta al suo livello naturale. Il che non significa che non esista inflazione, ma solamente che l’inflazione è data dal saggio di crescita della quantità di moneta e dalle aspettative di crescita dei prezzi precedenti. (Il tasso naturale di disoccupazione risulta compatibile con un dato tasso di inflazione, purché questo venga correttamente previsto).
E’ inutile, in ultima e definitiva analisi, che il governo cerchi di adoperarsi per condurre la disoccupazione al di sotto del suo tasso naturale mediante interventi di politica economica. La piena occupazione si ottiene spontaneamente, lasciando fare al mercato. Ma i monetaristi non si sono fermati qui. La relazione di Phillips era considerata stabile dagli economisti neokeynesiani. Questo, come anticipato, conduceva all’accettazione di un aumento del tasso di inflazione in cambio di una riduzione del tasso di disoccupazione.
Ne scaturisce che, nel modello monetarista, le autorità di governo possono scegliere il tasso di inflazione e non il tasso di disoccupazione, che non può divergere da quello naturale. La teoria di Friedman mette in risalto che, se la disoccupazione viene ‘forzata’ al di sotto del suo tasso ‘naturale’, l’inflazione è destinata ad accelerare senza freni. (Il tasso di disoccupazione ‘naturale’ può essere paragonato al concetto di pieno impiego di neoclassica memoria, con la puntualizzazione che, in questo caso, si tiene conto della presenza nel mercato di ‘rigidità’ e ‘frizioni’).
Non solo, ma saranno anche possibili casi in cui all’aumento dell’inflazione corrisponderanno situazioni di maggiore disoccupazione e reddito stagnante. Si tratta del fenomeno della ‘stagflazione’. Il meccanismo dell’inflazione attesa ha dato a Friedman l’opportunità di spiegare il fenomeno della ‘stagflazione’. (Comparso, si ricorderà, neglia anni ’70 del secolo scorso).
Sussiste, nel breve termine, una relazione diretta fra saggio di inflazione e livello di produzione. Infatti i prezzi variano, oltre che per lo scostamento del livello effettivo del reddito rispetto a quello naturale (o potenziale), anche per via dell’inflazione attesa. Se il sistema economico si trova un dato momento collocato in corrispondenza di un certo livello di produzione e di inflazione, può ben darsi che l’inflazione prevista – per via del meccanismo delle aspettative – porti in un momento successivo a una condizione in cui l’inflazione effettiva sarà incrementata e produzione e occupazione saranno calate. (Tecnicamente, nell’apparato teorico di Friedman si tratta di ‘spostamenti’ lungo curve di offerta di breve periodo che possono dar luogo a diversi tassi di inflazione e diversi livelli di produzione).
Se si attua una politica espansiva – monetaria o fiscale – le aspettative adattive possono determinare una posizione del livello dei prezzi che va oltre l’equilibrio, con il reddito che scende temporaneamente sotto il livello naturale. Il già richiamato procedimento di aggiustamento può avere quindi un andamento ciclico, e non lineare.
Con il tempo, comunque, le aspettative adattive operano efficacemente anche con riferimento al livello della produzione. Nel lungo periodo, cioè, le aspettative adattive portano alla coincidenza fra tasso di inflazione atteso e tasso di inflazione effettivo. Così, il livello di produzione offerto è pari a quello potenziale e l’inflazione è, a quel punto, su di esso ininfluente. (Nell’apparato teorico di Friedman, stavolta si tratta di una curva di offerta di lungo periodo verticale).
Altro pilastro del Monetarismo è l’inutilità della spesa pubblica. Per asserirlo, si chiama in causa la ‘teoria dello spiazzamento’ della spesa dello stato nei confronti di quella privata. L’aumento della spesa pubblica finanziato con emissione di titoli produce un aumento del tasso di interesse nel mercato finanziario che, da una parte genera una caduta del livello di investimenti, e dall’altra determina un calo della ricchezza finanziaria degli individui e, a catena, dei consumi. (Ciò a causa del cosiddetto ‘vincolo intertemporale di bilancio’ del settore pubblico).
In particolare, le imprese vengono distolte dalla richiesta di prestiti che, in assenza di intervento pubblico, normalmente attuano. Nell’ambito del quadro di riferimento monetarista, eventuali fluttuazioni monetarie hanno rimarchevoli effetti sul reddito e sull’occupazione, mentre altrettanto non può dirsi della politica fiscale. La spesa pubblica, reputata ininfluente sul reddito, degrada ad anticamera dell’inflazione. Anche con riguardo all’aspetto dello spiazzamento, i monetaristi approdano alla conferma di una conclusione che aveva già caratterizzato l’analisi neoclassica dell’economia. Ne risultano ribaltate le ipostatizzazioni keynesiane.
Le implicazioni di politica economica che si possono desumere dall’impianto teorico monetarista sono anzitutto che, rimuovendo l’evenienza di un comportamento autonomo del settore privato non razionale e, di conseguenza, escludendo che esso possa essere fonte di instabilità finanziaria, le congiunture di crisi devono essere fatte risalire a interventi erronei di politica economica da parte delle autorità pubbliche, in particolare da parte della Banca centrale.
Inoltre, poiché il sistema di libero mercato possiede intrinsecamente le forze capaci di agire in funzione stabilizzatrice, sono ampiamente sconsigliati provvedimenti di natura fiscale quali quelli ritenuti efficaci da parte dei Nuovi keynesiani. Neanche la politica monetaria è consigliabile: nonostante – secondo Friedman – il reddito dipenda dalla quantità di moneta in circolazione molto più di quanto dipenda dal ‘fiscalismo’ keynesiano, è preferibile sottrarre il controllo dell’offerta di moneta alla Banca centrale e attenersi a un’unica regola, ovvero alla regola secondo la quale la quantità di moneta deve crescere annualmente ad un tasso percentuale pari alla crescita del reddito potenziale più un tasso di inflazione ottimale.
Ciò perché è impossibile fare affidamento su politici e regolatori che non possiedono conoscenze adeguate per una gestione corretta delle fluttuazioni del reddito e, in più, si corre il rischio che – in risposta ad una perturbazione – gli effetti di politica economica intervengano tardi, quando i meccanismi riequilibratori insiti nel mercato sono già all’opera.
Per riassumere: inefficacia della politica economica discrezionale, divieto di fare ricorso alla spesa dello stato, controllo dell’inflazione, fiducia nella forza e nella rapidità dei meccanismi di stabilizzazione automatici, accento su obiettivi monetari piuttosto che su obiettivi ‘reali’, e poi interventi ‘di struttura’ per garantire maggiore competitività nei mercati ed eliminazione di impacci regolatori.
Infine, nel mercato del lavoro, dove la mancanza di lavoro è dipinta quale frutto di una scelta volontaria dei lavoratori, interventi che valgano a ridurre le ‘frizioni’ e le rigidità. (Il faro deve essere il tasso naturale di disoccupazione).
Se questa compilazione di raccomandazioni sembra rispecchiare l’agenda della politica contemporanea, ebbene, è proprio così. Sebbene altre correnti economiche di segno liberista siano seguite – es., la ‘Nuova Economia Classica’ e l’Economia del lato dell’offerta -, il Monetarismo ha contributo non poco all’affermazione del generale ‘consenso’ che, nonostante le ferite sempre più ampie infertegli dalla crisi del 2007-2009 e dall’attuale crisi sanitaria dovuta al Covid19, risulta tuttora in auge.
Oggi, così come negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, si tratta di fissare le priorità tra obiettivi diversi: da una parte uno sviluppo all’insegna dell’eguaglianza sostanziale per cui sono consigliate politiche attive di intervento pubblico; dall’altra, invece, la tutela degli interessi dei singoli rispetto allo stato, in ordine alla quale prevalgono regole pubbliche passive. L’egemonia neoliberista è dura a morire, anche di fronte a evidenze e dati contrari che si reiterano da almeno un ventennio. Ma questo è un altro capitolo della storia.