Il discorso del senatore Monti in occasione del voto di fiducia e il relativo articolo scritto per il Corriere della Sera, costituiscono un uno-due indicativo dello stato d’animo dei liberisti nostrani con proiezioni internazionali, e possono essere presi ad esempio di una sommaria indagine autoptica, essendo notoriamente morto il corpo del liberismo, come sappiamo, anche se la sua anima vaga inconsolabile per i cieli dell’Occidente.
Allora, il nostro alfiere di una teoria decaduta e decadente, ma ancora parte della precettistica liberale che i governi e le istituzioni internazionali hanno momentaneamente sospeso, almeno nelle sue forme estreme, ma hanno sempre in serbo di rianimare, con sincero sentimento dolente e quasi con fare ieratico, ha posto le sue condizioni, sciorinando il classico arsenale dello sciocchezzaio neoliberista.
Nell’ordine: il debito, sì, il famigerato debito pubblico, sentina di ogni vizio, che al massimo può essere mal sopportato in periodi di crisi come questo, è sempre e comunque cattivo, non va incoraggiato e dopo la pandemia dovrà essere affrontato da noi tutti come una falange macedone, senza pietà, senza fare capziose distinzioni fra debito “buono” e “cattivo”, alla Draghi, no, il nostro è per tornare al mondo pre-pandemia, come se niente fosse successo.
Gli italiani del futuro, una creatura fantasmatica, una entità che non esiste in natura, se non nei sogni pervertiti dei liberisti psicopatici che odiano gli abitanti attuali delle società occidentali, ma amano quelli futuri, che non devono essere gravati, giammai, dal peso di un insostenibile debito sulle spalle, come se lo stato fosse una banca qualsiasi e i cittadini dei mutuatari che si sono comprati una casa a rate. Il debito non come attivo dei risparmiatori che lo comprano a vario titolo, ma una colpa da lavare col sangue dei contribuenti.
E arriviamo ai sempreverdi must della produzione pubblicistica di questo hater antidemocratico: il demoniaco reddito di cittadinanza e la terrificante quota 100, i veri totem pop che un liberista purosangue come Monti non può tollerare, come tutti i danarosi redditieri di tutte le latitudini, i confindustriali col sangue alla bocca come Bonomi e tutte le Cgia di Mestre: quelli sono gli obiettivi da abbattere e finché la pancia reazionaria dell’Italia non sarà soddisfatta, il nostro non sarà contento.
Infine, il malcelato disprezzo per l’abominevole pratica dei ristori, che hanno preteso offrire un tiepido indennizzo per le attività in deficit di incassi e clienti, ma come, si è deragliato dai canoni del pensiero ortodosso: le attività fuori mercato e senza futuro vanno “accompagnate” all’uscio della società in favore di “investimenti” in quelle che avranno un domani. Un perfetto esempio di cretinismo neoliberale, più che la ragione del mondo, lo sragionamento di élites sempre più psicotiche: come si fa a distinguere tra attività quando l’intera economia è congelata causa pandemia?
Alla fine di questa breve ricognizione psicopolitica delle spoglie del paradigma neoliberale, emerge una verità politica chiara e limpida: questa accozzaglia di convinzioni apodittiche e teoremi indimostrati è semplicemente un ferrovecchio inservibile, un costrutto teorico “fuori mercato”, nemico delle popolazioni e amico dell’uno per cento che governa il pianeta distruggendo la vita degli uomini e l’ambiente. Questo è, siamo sempre dalle parti della Grecia del 2015, dell’Italia del 1922, due esempi storici di come il capitale in epoche differenti e società diverse si organizza per perpetuare il dominio sulle classi lavoratrici. Quello che rimane sempre uguale è la complicità dei tanti Monti che si susseguono nella storia.