Fin dal travagliato processo di unificazione nazionale l’Italia porta con sè una questione tutt’ora irrisolta e che ne definisce i suoi connotati più intrinseci, il suo ruolo nel consesso internazionale e la sua missione nell’universo occidentale, ovvero il nostro rapporto con il tema decisivo della sovranità.
Siamo da sempre un paese a sovranità limitata, può sembrare un’affermazione forte, apodittica, magari esagerata, ma in realtà è la sostanza del nostro essere nazione sin dal Risorgimento, e potremmo risalire indietro fino alle plurime esperienze statuali dell’Italia seicentesca, settecentesca, rinascimentale, medievale, riuscendo a comporre il quadro di un penisola afflitta dalla tara politica di una sovranità debole, divisa e dipendente dagli umori delle potenze europee che si sono avvicendate nella guida politica e militare del continente.
D’altronde, il celebre detto, “Franza o Spagna purché se magna”, è l’icastica sintesi di secoli di negoziazioni tra dominati e padroni, tra piccoli e litigiosi governanti e le monarchie e gli imperi che controllavano l’ordine, e il disordine, europeo. L’unificazione della penisola fu il prodotto di un lungo e complesso gioco diplomatico e politico, di alleanze militari e di convenienze maturate negli equilibri europei, che fecero pendere la bilancia nel verso della sospirata riunificazione degli italiani; se non fossero venute alla temperatura di fusione molte delle condizioni che dipendevano dagli stati europei, e se il conseguente indebolimento politico del Vaticano non avesse congiurato a favore, non ci sarebbe mai stata l’Italia unita.
Anche nel prosieguo della sua storia la dipendenza dagli umori delle cancellerie estere, dalle economie europee più forti, dagli equilibri di potenza, non diminuisce di certo, anzi, con la Grande Guerra i tortuosi percorsi della giovane nazione italiana si complicano vieppiù: dagli Imperi centrali passiamo all’alleanza con le potenze dell’Intesa, una scelta che portò il paese alla vittoria militare, ma non ad un pieno successo politico.
Dalle incertezze di una transizione europea gestita malissimo si produssero le condizioni per la definitiva liquidazione del precario stato liberale, che pure aveva visto il tenue ma concreto riformismo giolittiano, da parte del movimento fascista che fa della sovranità piena, totale, ipernazionalistica, proiettata in un imperialismo ridicolo e fuori tempo massimo, il proprio marchio di fabbrica.
Eppure, a ben riflettere, perfino la dittatura del Ventennio dovette scontare una visione ed una prassi della sovranità fragile, non fondata su solide basi economiche e sociali, tanto da avere costantemente bisogno dell’alleato tedesco per continuare ad esistere come versione caricaturale della romanità di un tempo: il Cesare di cartapesta aveva bisogno dell’Orco nazista senza del quale non sarebbe potuto esistere un minuto nella guerra mondiale e nelle convulse fasi che precedettero il conflitto: un amaro paradosso per chi aveva fatto di una concezione espansa, potremmo dire, della sovranità la propria ragione di vita.
Dopo il 1945, l’Italia, sconfitta ed umiliata, non può più fingere di essere un impero, come nel fascismo, o far finta di nascondere le proprie contraddizioni, come nell’Italietta liberale, che porta milioni di persone al macello della Grande Guerra quasi con noncuranza: da adesso in poi la sovranità è saldamente nelle mani del gigante americano che definirà i confini di quello che possiamo e di quello che non possiamo fare, del politicamente lecito e delle colonne d’Ercole di un interdetto politico che non potremo mai oltrepassare: l’Italia non potrà appartenere mai al campo socialista, ma nemmeno a quello dei Paesi Non Allineati, nessuna istanza di trasformazione politica dell’esistente potrà mai governare la penisola.
Da Portella alla strategia della tensione, dal “tintinnar di sciabole” degli anni sessanta al fallimento del centrosinistra riformatore, fino al culmine drammatico dell’omicidio Moro, per tacere di Ustica e Bologna, prende corpo la trama oscura e torbida di una sovranità limitata dall’adesione ai dogmi dell’oltranzismo atlantico e del capitalismo a stelle e strisce, quadro indiscusso e intangibile del nostro essere nazione integrata nel sistema occidentale.
Con il processo di integrazione europea la desovranizzazione dell’Italia giunge ad una tappa cruciale, compie un passo ulteriore: la politica monetaria, quella economica, la sfera dei nostri rapporti con l’estero, la dimensione militare, vengono delegati ad entità non democratiche incentrate sul più radicale paradigma neoliberale in circolazione, cediamo pezzi fondamentali della nostra sovranità a tecnocrazie senza popolo né politica.
E la prassi democratica si restringe e si impoverisce ancora di più, perfino rispetto ai già rigidi binari della cosiddetta Prima Repubblica, arrivando ad usare il differenziale tra i titoli italiani e quelli tedeschi, che un tempo era notizia al massimo confinata nelle pagine economiche dei giornali, come un’arma di ricatto dalla inaudita potenza politica, basta ricordare il tristemente famoso “Fate Presto!” del 2011. O le tensioni politiche “indotte” all’inizio dell’esperienza di governo gialloverde del 2018.
Dal Risorgimento alla Grande Guerra, dalla democrazia limitata dagli americani a quella dello spread agitato dai nordeuropei, la storia dell’Italia è la storia di una nazione a sovranità debole e dipendente da ingombranti vicini e alleati, che nella parabola di Mattei e della Resistenza ha trovato momenti di superamento di vincoli decisi da altri, e che subito dopo sono stati richiusi dal ripristino delle condizioni della nostra subordinazione.
Oggi, con il governo Draghi, il Santo Banchiere elevato a divinità politica da una classe dirigente debole e pavida, abbiamo raggiunto il grado zero della nostra sovranità, una sorta di transustanziazione con l’organismo e l’ideologia dell’Unione europea, vera e propria teologia politica a cui eleviamo sacrifici da due decenni. Il rapporto tormentato delle classi dirigenti italiane con la dimensione decisiva della sovranità continua, e non pare destinato a giungere ad una risoluzione proficua per gli interessi del nostro paese.