In un paese che non riesce a mettere al centro della discussione politica e pubblica la povertà di milioni di nostri connazionali, il declino economico che ci affligge dall’entrata dell’euro in poi, e il progressivo impoverimento delle capacità produttive che costituisce una grossa ipoteca sul futuro, fervono però le discussioni sugli aspetti individuali, esistenziali, del nostro vivere associato: la legge in gestazione sull’omotransfobia e i casi di cronaca che fanno trasparire possibili conflitti socioculturali.
L’unico perimetro nel quale si svolge il confronto tra istanze diverse è oramai solo quello delle cosiddette libertà civili, avendo, il mondo occidentale avanzato, e la piccola provincia italiana, abbandonato da tempo la discussione sui diritti sociali e sui modelli di sviluppo, se si eccettuano vaghi accenni alla “transizione ecologica”, e ovviamente digitale.
Come se il campo di gioco fosse solo quello della promozione dei diritti individuali, nel senso che è l’unica dimensione dell’agire umano all’interno della quale sia possibile un mutamento, dato che il campo economico è guidato dalla unidirezionalità del pilota automatico liberal-liberista di marca Ue, intangibile e indiscutibile al pari di un dogma di fede.
Questa particolare spaziatura politica però ha aperto uno squarcio sul nostro rapporto con le religioni, quale metafora del nostro rapporto col mondo e con quel complesso meccanismo di alibi culturali e pavidità etiche che chiamiamo multiculturalismo: se nella vicenda di Saman è venuta fuori la falsa coscienza del nostro rapporto con l’Islam, nel dibattito sulla vicenda della Legge Zan emerge la nostra ipocrisia nel legame con la Chiesa cattolica.
Ma, se nel caso della povera ragazza di origini pakistane la discussione sulle possibili ricadute negative di una visione tradizionalista e ortodossa dell’Islam non è nemmeno partita, silenziata dall’ingiunzione politicamente corretta, e sostanzialmente stupida, all’insegna del: la religione non c’entra!, perché così deciso e deliberato dai tribunali del progressismo d’ufficio della cultura contemporanea, nel caso del Ddl Zan le dinamiche discorsive sono invertite: di religione si può e si deve parlare, in termini fortemente negativi e di scherno, quanti post e commenti sui social in queste ore ridicolizzano il Vaticano visto come un ricettacolo di beoti che vivono in un loro medioevo mentale, e pensiamo se fosse riservato lo stesso trattamento alla fede islamica: avremmo una sollevazione che stigmatizzerebbe questi comportamenti come razzisti, islamofobi, scorretti, frutto di gretta ignoranza.
Ma se si parla di Chiesa cattolica tutto è consentito. Strano, e singolare. Forse un paradosso della distanza, altro topos politicamente corretto, la religione lontana da noi viene messa su un piedistallo culturale, quella della porta accanto viene ritenuta intollerabile quando non si limita a fare da soprammobile culturalista e new age, una sorta di buddismo del senso comune.
Un po’ come nel caso dei migranti: chi viene da fuori è visto come portatore di una alterità culturale che si traduce immancabilmente in superiorità etica, questo è il cuore della retorica progressista sull’argomento, chi è vicino ed esprime sensibilità e sentimenti non sempre accettabili, viene visto come rozzo e ignorante, potenzialmente razzista, comunque colpevole. Insomma, potremmo definirlo come il Paradosso del Progressista, il dispositivo principale delle nostre società dominate dalla logica del risarcimento.