Nel 2001, una modifica costituzionale approvata con referendum confermativo, riguardante il titolo V ha ampliato in maniera decisiva le competenze delle regioni, estese in parte anche alla tutela della salute e dell’istruzione, inserite tra le materie su cui la legislazione diviene concorrente, abbiamo dunque l’introduzione della legislazione concorrente, andando a creare profonda confusione e accesi scontri tra regioni e stato che si sono acuiti proprio durante il contesto della pandemia, con ordinanze regionali sono state impugnate dallo Stato centrale e annullate dai tribunali amministrativi, episodi di questo tipo che hanno riacceso in molti esponenti politici il dibattito sulla necessità di rivedere nuovamente il Titolo V.
Fra le ipotesi c’è quella di inserire una clausola di supremazia, che permetta alla legge statale di intervenire «in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica» oppure quando lo richieda «la tutela dell’interesse nazionale». In realtà, una clausola di questo tipo era già presente nella riforma Boschi-Renzi, che fu oggetto dal referendum del 4 dicembre 2016 e che fu bocciata, ricordo che quel quesito referendario costringeva il popolo italiano ad esprimersi con un solo voto su una molteplicità di punti diversi ed estremamente distinguibili.
La Costituzione, così com’è oggi, a dir la verità prevede già la superiorità della legge statale in circostanze nelle quali la pandemia rientra senza dubbio quando si tratta di «profilassi internazionale», ovvero delle procedure necessarie a prevenire la diffusione di una malattia e in casi di «pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica», proprio nei termini della clausola di supremazia che si vorrebbe inserire ma che, appunto, sarebbe già presente all’interno della Costituzione.
Più semplicemente il titolo V andrebbe riscritto con più chiarezza, con una demarcazione più univoca per quanto riguarda alcune competenze di stato e regioni e soprattutto in materia di sanità e istruzione e recuperare una regia centrale per apparare le disparità tra le regioni di nord e sud senza clausole di supremazia che potrebbero solamente complicare questo discorso. Sulla forma della scrittura potranno ovviamente occuparsene, costituzionalisti, politologi e tecnici competenti.
Una modifica che forse è stata dimenticata ma che in realtà ha rivestito un’importanza storica nella politica del nostro paese è quella del 2012, è che è stata approvata con i 2/3 della maggioranza in parlamento e dunque senza il vaglio del voto popolare, senza referendum costituzionale. In poche parole la modifica dell’articolo 81 ha introdotto in Costituzione il principio del pareggio di bilancio. In merito a questo è bene ricordare che la nostra Costituzione, nei suoi albori, durante l’assemblea costituente, fu scritta con un pensiero preciso, con una matrice ideologica ben definita che era quella keynesiana. I nostri costituenti avevano osservato che una società in cui i mercati finanziari avanzavano senza regole, in cui lo stato non poteva avere il controllo sulla finanza, si andavano a creare delle profonde disparità nella popolazione, problematiche molto importanti come la povertà, le disuguaglianze sociali, lo svilimento dei diritti sociali e questo aprì la strada all’ascesa del fascismo e del ventennio dal qual si usciva definitivamente con l’assemblea costituente e la stesura della Carta costituzionale per la nascente repubblica. Loro proponevano allora una società basata sul pensiero keynesiano dove lo stato avesse il potere di intervenire nella finanza e di regolare il mercato per poter garantire a tutti una certa tutela in termini economici, sociali, finanziari. Il principio del pareggio di bilancio però è un principio opposto
a questa visione, ovvero è un principio liberista che vuole un mercato senza regole, dove lo
stato non può intervenire, in caso di grosse speculazioni, di grosse disparità, di grosse ingiustizie, e dove la finanza può assumere un ruolo di potere molto importante nei confronti della politica stessa e dei governi. Quindi quella fu un grave sfregio alla Costituzione Italiana, perché ne sconvolse l’impalcatura ideologica, e ancora oggi persiste la necessità di dover riportare questo articolo alla sua formulazione originaria dove lo Stato può, a prescindere dalle compatibilità economiche e dai suoi bilanci, intervenire nel garantire a ogni costo determinati servizi essenziali, determinati diritti, che sono quelli scritti nella prima parte della Costituzione che sono soprattutto il lavoro, l’istruzione, la salute, l’assistenzialismo e le previdenze.
Arrivò poi nel 2016, il tentativo di modifica costituzionale, già citata, che prevedeva una riorganizzazione molto radicale del senato e la fine del bicameralismo perfetto. Il problema primario di quella riforma era la forma del quesito referendario innanzitutto, che prevedeva non solo la riforma del bicameralismo ma anche, come detto in precedenza, la riforma del titolo V, l’abolizione del CNEL e altri punti: è profondamente anti-democratico chiedere ai cittadini di esprimersi con un solo voto su una modifica così ampia e con vari punti molto distanti tra di loro. In secondo luogo, entrando nel merito, la nuova organizzazione che si proponeva per il Senato avrebbe comportato che questo cessasse la sua funzione di controllo, di contrappeso nei confronti della camera e del governo: la democrazia è fatta di pesi e contrappesi: una camera controlla l’altra, e le camere controllano il governo. Questa modifica non prevedeva dei nuovi contrappesi nel momento in cui il senato cessasse questa sua funzione. Oltretutto la composizione e quindi la formula di elezione indiretta dei rappresentanti al nuovo Senato lasciava molte perplessità e punti oscuri. Dunque quella “deforma” destava grosse preoccupazioni per l’equilibrio istituzionale del paese.
Le acque su cui navigava quella modifica erano indubbiamente torbide. I rappresentanti di quella legislatura erano stati eletti tramite una legge elettorale, nota come “Italicum”, che fu bocciata dalla Consulta in quanto incostituzionale e, per tale motivo, quel Parlamento era da considerarsi politicamente non legittimato a cambiare la Costituzione. Inoltre, mai dimenticarsi dei retroscena di quella legge: la famosa lettera della JP Morgan indirizzata alla Commissione Europea in cui si chiedeva la modifica delle Costituzioni di alcuni paesi del
Sud-Europa nate dalla Resistenze e ritenute “troppo socialiste” e “troppo democratiche” e che non consentivano ai governi di legiferare secondo i ritmi più graditi ai Mercati Finanziari. Inoltre, quel tentativo di modifica fu il risultato di una negoziazione, l’allora premier Matteo Renzi aveva svenduto la nostra Costituzione, predisponendo la “deforma”, in cambio di uno sforamento dell’insensato parametro 3% del deficit/Pil promessogli dalla cancelliera tedesca Angela Merkel: una modifica costituzionale imposta dallo “spread”.
Si arriva infine al referendum del 2020 che taglia i parlamentari prevedendo una riduzione più lineare del numero dei rappresentanti. c’è da dire però che anche qui persistono delle perplessità. Innanzitutto, è stato incongruente indire una consultazione popolare così importante nel bel mezzo di una pandemia di fatto andando a precludere una campagna referendaria importante come era avvenuto 4 anni prima. Desta anche abbastanza preoccupazione questo continuo appellarsi al risparmio economico per giustificare questi tagli, quando si potrebbe tagliare su tante altre spese, come quelle di guerra, condurre una lotta vera ed efficace contro l’evasione fiscale, ma non si dovrebbe mai tagliare sulla democrazia, o magari intervenire su altri elementi, come potrebbero essere ad esempio gli stipendi dei parlamentari, anziché il loro numero. I nostri padri costituenti avevano calcolato un numero di rappresentanti che fosse altamente rappresentativo per quanto riguarda i territori, e ridurre il numero dei parlamentari allontana ulteriormente i rappresentanti dai loro territori e nell’eventuale presenza di una legge elettorale che induce un sistema in cui sono i segretari di partito a scegliere le candidature, li avvicina invece alle segreterie di partito, ai potentati, alle lobby.
Inoltre ridurre il numero dei parlamentari porta anche ad una ridotta possibilità per le minoranze politiche, culturali, sociali, linguistiche di poter far sentire la propria voce.
La Costituzione Italiana nonostante i suoi 73 anni di età è una costituzione giovane, moderna e rappresenta l’unico documento esistente che sta realmente dalla parte dei cittadini, del popolo e soprattutto dei più deboli. Anzi, è il caso di dire, e lo dicono i migliori costituzionalisti, che ogni volta che è stata cambiata, la Costituzione è stata cambiata in peggio. Quando i nostri padri e le nostre madri costituenti scrissero questa carta lo fecero guardando al futuro, lo fecero affinché la democrazia riconquistata perdurasse fino ai giorni nostri ed è per questo che nella 1° parte della Costituzione, quella che comprende i principi fondamentali, i diritti e i doveri del cittadino e i rapporti economici e politici, posero al primo posto quelle che definiamo le “precondizioni della democrazia” (il diritto al lavoro il diritto all’istruzione, il diritto alla salute, il diritto alla libera informazione) ma scissero la seconda parte della Costituzione che regola l’ordinamento della Repubblica, ovvero la sua organizzazione e il suo funzionamento, in modo che fosse la formula migliore affinché si potessero realizzare i principi scritti nella prima parte.
In definitiva, è vero tante volte è stata cambiata, ma in particolare occorre riportare l’articolo 81 della costituzione nella sua formulazione originaria, in modo che la Costituzione possa riacquisire totalmente la sua radice di pensiero anti-liberista, contro ogni forma di politica di austerità, e in un processo che porti gli Stati a liberarsi da vincoli scellerati, i vari fiscal compact, patto di stabilità, spread, e che riacquisiscano la loro possibilità di fare investimenti pubblici e dare ossigeno alla nostra economia, di ricominciare a reinvestire, a garantire innanzitutto il lavoro, la salute, i servizi essenziali, aiutare le piccole e medie imprese.
Inoltre , si potrebbe anche pensare di ritoccare leggermente l’articolo 138 il quale afferma che se una modifica costituzionale viene approvata a maggioranza di 2/3 da entrambe le camere non si dà luogo al referendum. Lo si potrebbe cambiare nel senso che qualsiasi riforma costituzionale debba sempre passare attraverso il consenso popolare, con il referendum democratico. Sarebbe una clausola di sicurezza in più che permetterebbe alla popolazione di avere un controllo maggiore sulla propria sovranità popolare e sulla democrazia del paese.