“Quello che rimane è anche di avere paura.
Io credo che nessuno di noi sappia come
fare: e questo è lo scopo (se c’è)
dell’operazione”
Nanni Cagnone
Il nostro viaggio nel mondo del lavoro prosegue. Abbiamo attraversato gli anni delle grandi conquiste e del boom economico, segnati dal conflitto sociale. Abbiamo visto i luccicanti anni Ottanta, quelli del reflusso culturale. Ora ci avviciniamo ancora un po’ ai giorni nostri e parliamo degli anni Novanta. Quelli durante i quali avviene una deflagrante frammentazione e un’evidente disarticolazione del mondo del lavoro. Attraverso un incontrollabile, o sarebbe meglio dire irragionevole processo di precarizzazione delle condizioni di vita dei lavoratori, un nuovo ordine si consolida e stabilisce la norma: il 32.4% dei lavoratori vive con meno di 1000 euro al mese (Ministero del Lavoro)e 1221 non sono tornati a casa dalle proprie famiglie nel solo 2021 (Fonte: INAIL). Inaccettabile!
Come premessa del discorso che andremo a tratteggiare, fissiamo tre punti scientificamente definiti, elementi importanti, sia per senso che per scala.
Primo punto: l’indice di protezione del lavoro
L’Employment Outlook dell’OCSE 1999, rapporto sull’occupazione, poi replicato e aggiornato più volte con esiti sempre confermati- anche da esponenti del pensiero economico mainstream come Tito Boeri, certifica che il livello medio del Protection Legislation Index (EPL) indice che misura il grado di tutela di cui godono i lavoratori e le lavoratrici in ciascun paese è caduto del 18%. Ben peggiore è il valore della varianza nei diversi paesi: -68%. C’è chi sta male e chi sta peggio. Da noi il dato si attesta ad un -30%. Peggio di noi ha fatto solo la Grecia.
Secondo punto: il rapporto occupazione flessibilità
Il World Economic Outlook 2016 redatto dal FMI evidenzia che «le riforme che facilitano il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche». Le evidenze su 26 analisi empiriche relative agli stock totali di occupati e disoccupati mostrano che in ben 18 di esse la flessibilità non ha correlazione né con l’occupazione né con la disoccupazione. I contratti precari non stimolano l’occupazione.
Terzo punto: lo sciopero
L’Organizzazione internazionale del Lavoro certifica che dal 1990 la media delle ore di sciopero nei paesi OCSE è crollato del 42%. Inoltre la varianza tra paesi è precipitata dell’83%. Non c’è più una dialettica dello scontro.
Questo che cosa vuole dire? Che forze misteriose stanno operando pressoché indisturbate per degradare i lavoratori e il lavoro? Nessuno nega che in un mondo globalizzato il grado di interconnessione sia aumentato e che ci siano importanti processi di scala internazionale. C’è sicuramente una tendenza globale alla concentrazione dei processi produttivi associati all’esercizio del potere, per usare le parole che Emiliano Brancaccio adopera nel suo ultimo libro, Democrazia Sotto Assedio. È evidente tuttavia che assistiamo anche al declino della capacità produttiva del nostro paese e all’annichilimento della classe lavoratrice, in nome di quella democrazia azionaria che preserva i grandi capitali internazionali, lasciandoli liberi di andare dove maggiore è il profitto e minore è la tassazione. Assistiamo all’ impoverimento del valore della quota di reddito nazionale che, dati ISTAT alla mano, continua a certificarsi sotto media europea. La quota di reddito nazionale, ricordiamocelo bene, è quella che va, nella maggior parte, nelle tasche dei lavoratori, precari dipendenti e autonomi, diversamente da quello che accade nel mondo della finanza dove l’80% del capitale quotato nelle borse mondiali è arrivato ad essere controllato da meno del 2% degli azionisti.
Come ce lo spieghiamo? Come abbiamo fatto ad arrivare fino qui?
Osservate quest’ immagine. Qualcuno di voi l’avrà già vista: è l’anatra-coniglio
È una rappresentazione figurativa che a fine ottocento lo psicologo statunitense Joseph Jastrow creò per descrivere appunto un’illusione ottica. In un’unica immagine si può percepire una testa d’anatra, che guarda verso sinistra oppure una testa di coniglio che guarda verso destra. Che nome diamo quindi a quello che abbiamo davanti agli occhi? È un’anatra o è un coniglio? Per saperlo dobbiamo guardare bene, riconoscere l’illusione ottica. Solamente riconoscendo l’opacità di un racconto che vuole essere unico e dominante possiamo cercare una narrazione diversa. Per farlo dobbiamo imparare ad utilizzare gli attrezzi del mestiere nella maniera corretta. Sto parlando di quegli arnesi che si trovano nella cassetta degli artigiani: un martello, una tenaglia, un cacciavite, una sega, un metro. Differenti sono le loro funzioni, quanto differenti sono le funzioni delle parole. Come gli attrezzi di una cassetta assumono un valore d’uso e una funzione solo se utili nell’ambito di certe attività assolvendone uno scopo, così anche le parole/oggetto hanno un senso solo se si traducono in pratiche di riconoscimento veritiere. Posso usare un cacciavite per stringere delle viti allentate, per smontare o ricomporre una macchina che non funziona.
Bene, andiamo a vedere quali sono stati gli attrezzi, io ne ho scelti nove, che sono serviti a costruire o decostruire un certo mondo del lavoro.
LA COSTITUZIONE
Il primo oggetto è sicuramente la Costituzione della Repubblica italiana: non possiamo prescindere da un testo letteralmente fondamentale: la Costituzione che, come tutti sappiamo, al primo articolo recita così: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” parte da lì. Non occorre quindi essere fini giuristi per rilevare l’importanza fondamentale del tema nella nostra architettura giuridica. Anche scegliendone uno articolo a caso, ci si accorge che lì si va a parare. Vedi l’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” oppure l’articolo 39: l’organizzazione sindacale è libera; l’articolo 40: Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.
LO STATUTO DEI LAVORATORI
Il secondo oggetto è la legge 300/1970 detta anche Statuto dei lavoratori. In un clima sociale in forte ebollizione questa conquista (perché di conquista si tratta, nulla è stato regalato) sancisce l’ingresso della Costituzione nei luoghi di lavoro e l’articolo 1 ne è la proclamazione: “i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”. Facciamo un salto.
L’ULTIMA DELLA SUA SPECIE
Arriviamo più vicini ai giorni nostri, con un terzo oggetto: la legge 104/1992, si potrebbe dire l’ultima della sua specie. È la legge quadro di tutela dei soggetti diversamente abili, ancora definiti nel testo di quell’anno con la parola (oggi inutilizzabile) handicappati. Lo scopo della norma, come si legge nel testo, è la rimozione delle cause invalidanti, la promozione dell’autonomia e della socializzazione e integrazione nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro e nella società in genere delle persone disabili. In questo modo si vuole prevenire e rimuovere gli ostacoli che non rendono possibile la piena realizzazione della persona, il raggiungimento della massima autonomia compatibile con l’handicap. È la ricerca della realizzazione del principio delle pari opportunità, previsto e descritto dall’articolo 3 della Carta Costituzionale: “ogni cittadino è uguale a prescindere dal suo stato di salute ed è compito delle istituzioni rimuovere qualsiasi ostacolo che si oppone alla piena realizzazione della persona sotto il profilo scolastico, lavorativo e sociale”. Ogni forma di discriminazione e di esclusione non è accettabile agli occhi del legislatore. Questa legge è simbolicamente significativa in quanto fu l’ultima di una serie di leggi che migliorano le condizioni di vita dei lavoratori e che diedero piena realizzazione ai principi di uguaglianza universalistica, espressi nel dettato costituzionale: le altre sono, come detto prima, la legge 300/1970 (lo statuto dei lavoratori), la legge 883/1978 (l’istituzione del SSNN), alla legge 18/1980 (l’indennità di accompagnamento) alla quale hanno diritto gli invalidi civili. Un altro motivo per cui questo testo è importante è la coincidenza temporale nella quale avvenne. Nello stesso mese, nello stesso anno il Trattato di Maastricht ribattezza la Cee col di nome di Unione europea. Elemento centrale del TM è la regola fiscale che richiede ai governi degli stati membri di mantenere i loro disavanzi al disotto del 3% del Pil. Da questo bivio della storia si consolida in maniera irrevocabile un percorso che trova la sua ragion d’essere in queste parole di Guido Carli, negoziatore per l’Italia del trattato: “Bisogna colpire salari e pensioni”. Voglio qui aprire solamente una breve parentesi, perché prima ho accennato ai processi di larga scala, e perché l’anno lo richiede, il 1992 è l’anno della conferenza di Rio de Janeiro, l’unica e ultima vera e concreta possibilità di una svolta ecologica del modo di produzione capitalistico, con gli Stati Uniti e il loro 30% di produzione di Co2 che lo affondano.
LA CONCERTAZIONE OBBLIGATORIA
Eccoci al quarto oggetto: la concertazione (obbligatoria). È un’idea agli antipodi di quella che abbiamo analizzato un paio di settimane fa, il conflitto. Siamo in epoca Tangentopoli. Il 31 luglio di quel famigerato 1992 la scala mobile, o ciò che ne rimane dopo i quattro tragici accordi degli anni 80 fra esecutivo e Confederazioni, viene definitivamente soppressa con la firma del protocollo di intesa tra il governo e le parti sociali. Al fine di realizzare gli obiettivi del Protocollo del 1992 alcune importanti riforme strutturali prendono forma. La più importante da un certo punto di vista, è sicuramente quella che ridisegna i rapporti tra ordinamento statale e ordinamento sindacale. Ridefinisce gli assetti contrattuali secondo il modello del doppio livello di contrattazione e grazie all’accordo interconfederale decreta per legge l’azione sindacale confederale, calpestando qualsiasi criterio di rappresentatività. L’accordo riesce, così, a predisporre regole istituzionali precise sulle fonti e sugli attori in campo. Al fine di assicurare un quadro stabile e governabile alle relazioni industriali, il conflitto sindacale è bandito e praticamente azzerato. Attraverso quello che ricordiamo con il titolo «Protocollo sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo del lavoro» viene espressa l’urgenza di contenere il «disavanzo statale» per sostenere gli obiettivi di politica economica e convergere verso i parametri del Trattato di Maastricht. È lo scopo della concertazione: dai salari alla politica economica fino al welfare si abbandonano la visione delle politiche redistributive a favore di soluzioni regolative “consensuali”. Sono anni convulsi…. Per fortuna arriva Berlusconi a far traballare l’idea delle soluzioni consensuali: il suo governo tenta una manovra finanziaria lacrime e sangue provando a riformare le pensioni senza il consenso delle organizzazioni sindacali. Lo scontro si scatena il 14 ottobre 1994 quando queste ultime si ricompattano e proclamano un primo sciopero generale. La contestazione sindacale ha mobilitato la piazza e dopo due scioperi generali ed una manifestazione, non se ne è fatto niente. Deve arrivare un governo di tecnici per realizza la riforma delle pensioni con il consenso delle organizzazioni sindacali. E la riforma viene realizzata con la legge n. 335 del 1995 che accoglie le principali richieste sindacali e porta al parziale e progressivo passaggio dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo.
AUSTERITY
Eccoci al centro del nostro excursus, il quinto oggetto. Il modello concertativo è chiamato ad una nuova prova quando, con le elezioni del 1996, e la crisi economica alle porte, la disoccupazione «galoppante» e la crescente influenza dell’ordinamento comunitario ci impongono una nuova stagione di riforme e, soprattutto, impongono una nuova e pesante finanziaria di risanamento: come ho detto prima, austerity, una madre che avrà molti figli. Con la legge 196 del 24 giugno 1997, nota con l’appellativo di “pacchetto Treu”, l’attuale presidente del CNEL vuole “svecchiare” il mercato del lavoro italiano. Ecco che così debutta il lavoro interinale, termina il monopolio pubblico del collocamento, compaiono nuove modalità per la gestione del rapporto di lavoro. Aumenta l’incentivazione al part-time e ritorna l’attenzione sulle modalità di transizione dalla scuola al lavoro attraverso una revisione di quelli che erano apprendistato e tirocini. Storicamente è il primo provvedimento di riforma del mercato del lavoro che non si ferma alle misure di difesa del contraente debole, il lavoratore, rispetto a quello forte, l’impresa. Rompe un argine ovvero flessibilizza il rapporto di lavoro soprattutto in entrata con lo scopo di generare occupazione e rendere i sistemi produttivi più competitivi in un contesto di allargamento delle dimensioni globali dei mercati economici, caratterizzati da importanti variabilità del costo del lavoro. È la versione italiana delle riforme già applicate in Nordeuropa e basate sul concetto di flexsecurity. A fine anni ’90 il monopolio, se non altro simbolico, del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato è definitivamente deposto in favore dell’emergere in massa di figure contrattuali cosiddette “atipiche”. Sembra così prendere forma il paese di Bengodi: un mercato del lavoro più dinamico in nome dei “mille lavoretti”. Da quell’anno fino al 2001, sempre secondo l’ISTAT il tasso di occupazione salì di due punti percentuali (dal 43,3% al 45,3%) e quello di disoccupazione diminuì dall’ 11,2% a 9%. Come ben sappiamo fu un fuoco di paglia. È sempre in quell’anno che nasce in seno al Consiglio straordinario di Lussemburgo del 1997 la SEO, la famigerata Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) con l’obiettivo dichiarato della lotta alla disoccupazione e dell’aumento della produttività e della qualità del lavoro come frutto del comune intendimento di far fronte alle esigenze espresse dal mondo produttivo e dal mercato del lavoro. La SEO si fonda su quattro parole d’ordine: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità, pari opportunità. Si parlare di eccessiva rigidità del mercato del lavoro, dei troppo i diritti dei lavoratori che così facendo escludono un gran numero di persone. In tale contesto nasce la necessità di sempre maggior flessibilità in entrata e uscita, di diversificazione delle tipologie contrattuali. Sintetizzo in poche parole: maggiore facilità di licenziamento.
IL LIBRO BIANCO
È così che compare il sesto oggetto, uno che vale doppio: il libro bianco e la legge 30. All’inizio del nuovo millennio si apre una nuova stagione per la legislazione sul lavoro. Vengono ulteriormente liberalizzati i contratti a termine, allargando la maglia stretta delle possibili “causali” del contratto. Bastano due o tre mesi per veder arrivare il tristemente noto “Libro Bianco” (2001) coordinato da Maurizio Sacconi e Marco Biagi, un libro dei desideri liberamente tratto dalla Strategia europea per l’occupazione di cui abbiamo parlato pocanzi, a cui fa tra l’altro richiama esplicitamente nel testo. La legge Biagi conosciuta come legge 30, entrata in vigore nel febbraio 2003 porterà poi avanti con ancor più decisione l’opera di rinnovamento del mercato del lavoro iniziata dalla legge 196 di Tiziano Treu. Questa riforma servì a certificare normativamente tutte quelle nuove tipologie contrattuali di un grande numero di lavoratori coinvolti in attività difficilmente regolabili con gli strumenti presenti nel diritto del lavoro prima degli anni Novanta. E per fare questo, la riforma Biagi, rispetto allo Statuto dei lavoratori, ridusse drasticamente diritti e tutele e le possibilità di intervento della magistratura nelle questioni contrattuali (si pensi alla certificazione dei contratti di lavoro o alla limitazione della riqualificazione del contratto nell’ambito della parasubordinazione, quale co.co.co. e co.co.pro) amplia ancora la posizione tutoria dei Sindacati comparativamente più rappresentativi. In generale si assiste alla proliferazione di nuove figure lavorative che devono adattarsi alle esigenze del mercato del lavoro globalizzato.
I TECNICI AL LAVORO
Parliamo ancora di sindacato. L’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 è il nostro settimo oggetto: la pietra tombale sull’idea di conflitto che viene bandito per legge. Le parti sociali danno la loro disponibilità ad una riforma del sistema delle relazioni industriali in cui la contrattazione decentrata acquista un ruolo di primo piano. Questo passaggio inoltre merita senza dubbio di essere ricordato nel nostro pur rapido excursus perché apre la possibilità alla contrattazione sociale di derogare in peius la normativa nazionale dei contratti collettivi. A fine 2011, in piena crisi economica, al Governo arrivano i tecnici. Dopo un primissimo intervento dedicato ai conti pubblici e alle pensioni, il Governo dedicò molta attenzione ai temi del lavoro. Che cosa accadde? L’effetto di questa riforma fu tutt’altro che un successo e i dati ISTAT lo certificano: la disoccupazione crebbe di due punti in due anni e il tasso di occupazione scese di oltre un punto. La disoccupazione giovanile addirittura salì dal 35,3% (2012) al 42,7% (2014) e divenne argomento di discussione comune il problema della inattività dei giovani, fotografato dalla statistica sui NEET (Non in Education, Employment or Training).
PENSIONI
Passo successivo. Per questo nostro ottavo oggetto, le pensioni, può essere presa ad esempio la legge n°92 del 2012, la Riforma Fornero. Molti sono stati i passaggi che negli anni hanno portato a riforme o a semplici modifiche del sistema pensionistico: Amato 1992 con l’innalzamento graduale dell’età pensionabile, Dini 1995 con l’introduzione del sistema di calcolo contributivo e l’istituzione della gestione separata, Maroni 2004 con le quote per le pensioni di anzianità o Sacconi 2010 con le sue finestre mobili: tutto ad allontanare e smagrire il traguardo pensionistico dei lavoratori. La draconiana Riforma Fornero, portata con la manovra “Salva Italia” del governo Monti, cambia ulteriormente il panorama previdenziale. Prende il via un nuovo sistema di calcolo delle pensioni che estende il metodo contributivo “pro rata” a tutti i lavoratori.
JOB ACT
Eccoci infine alla ciliegina sulla torta. È lui il nostro nono oggetto: il Job Act. A questo punto non ci dovrebbe stupire se la prima preoccupazione dei tecnici deputati a impostare gli interventi lavoristici del Governo Renzi nel lontano 2012, fu quella di liberare i potenziali di crescita occupazionale dalla “cappa”, sul mercato del lavoro, rappresentata dagli ultimi lacciuoli della precedente riforma del 2012. Non a caso, il primo intervento del nuovo esecutivo fu proprio in tema di contratti a termine. Queste misure sul contratto a termine furono concepite per “preparare il campo” a quella che lo stesso Premier Renzi, terminato il mandato di Governo, ha definito la sua principale riforma, ovvero il Jobs Act: riordino degli ammortizzatori sociali dopo la perdita del posto di lavoro, regolazione del nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, quello che ha comportando il superamento per “svuotamento” e non per abrogazione dell’art. 18 Stat. lav); il riordino delle tipologie contrattuali (contente l’abrogazione del contratto a progetto, una nuova stretta per le forme di autonomia considerate non genuine); la riforma degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, la semplificazione dei servizi ispettivi, la rimodulazione delle politiche attive del lavoro con la creazione dell’Anpal con le connesse semplificazioni burocratiche.
Queste sono alcune delle vicende che hanno caratterizzato la politica economica italiana negli anni Novanta. Avremmo dovuto utilizzare altri strumenti oppure avremmo potuto utilizzare quegli strumenti in modo diverso? Noi crediamo di sì. Giocando di sponda con l’Europa e demandando ad essa un mucchio di cose, tutti avremmo sentito la famosa frase, ce lo chiede l’Europa, sono state fatte scelte determinanti in momenti cruciali. Quei salti nel vuoto come dice Mody nel suo ultimo libro: abolito i confini, rinunciato ai dazi doganali, contribuito ad istituire un mercato comune, fondato un diritto comunitario intorno ad una moneta unica. È stata data forma particolare ad un apparato istituzionale che soggiace a precisi rapporti di forza, che ha scelto chi e cosa difendere, chi e cosa sacrificare. Pensavamo che il nostro paese ne traesse vantaggio? Il nostro è stato allora un agire dettato da debolezza? Oppure il nostro è stato un atteggiamento di sottomissione al potere degli altri stati?
Ovviamente risposte certe a queste domande non ce ne sono. Rimane l’amara consapevolezza che la strada imboccata è quella sbagliata.
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