È pienamente corretto esordire dicendo che Putin non rappresenta esattamente l’esempio più fulgido del politico democratico tollerante verso il dissenso, che la politica economica del suo governo è indubbiamente deleteria per la larghissima maggioranza dei popolo russo, e, venendo alla stretta attualità, che la guerra mossa contro l’Ucraina è un’azione criminale e per questo motivo deve essere condannata con forza, senza il minimo indugio; è corretto mettere tutto questo come incipit per sgombrare il campo da ogni spiacevole equivoco.
L’altra faccia della medaglia
Poi, però, c’è qualcos’altro che va esaminato al fine di non appiattire l’analisi solo su una faccia della medaglia; dobbiamo, insomma, interrogarci sul ruolo giocato dagli USA e dal suo grande vassallo, la UE. Se qualcosina va detta sui soggetti che occupano questa seconda parte del tutto, si potrebbe esordire mettendo in luce il loro volto arrogante, tipico di chi pensa d’essere il detentore di una verità inconfutabile da esportare, magari sganciando qualche bomba su quei Paesi “meno evoluti” a cui regalare la democrazia. Una presunta verità che si abbraccia a un forte senso di superiorità, in nome del quale è lecito ritenere che gli equilibri geopolitici debbano, sic et simpliciter, mutare sempre a proprio favore. Ed è in nome della pura arroganza che i presunti detentori di questa verità/superiorità si sentono legittimati a non dialogare alle pari con i “barbari”.
Prima di andare avanti dobbiamo fare un passo indietro e spendere due parole sulle rivoluzioni colorate sviluppatesi in alcuni Paesi post sovietici fra il 2003 e il 2005: più che rivoluzioni andrebbero definite delle proteste di piazza “spinte nella giusta direzione”, finalizzate non alla trasformazione dei rapporti sociali, ma al rovesciamento della vecchia classe dirigente a favore di nuovi funzionari e politici amici dell’occidente. Va subito chiarito che non siamo affatto scivolati nella dimensione del complottismo dal momenro che la pratica di orientare il malcontento delle masse è presente dalla notte dei tempi. L’unica differenza rispetto al passato è che oggi il cambio dei vertici attraverso la spallata della piazza è reso più agevole dall’uso delle tv satellitari e dei social media.
La rivoluzione arancione
In Ucraina, la cosiddetta rivoluzione arancione, avvenuta tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, fu una protesta di piazza nata per denunciare le presunte irregolarità nel conteggio dei voti delle presidenziali, e portò la Corte Suprema ucraina a fissare nuove elezioni. Queste vennero vinte da Viktor Juščenko del partito filo-europeista “Ucraina Nostra” che sconfisse Viktor Janukovyč del Partito delle Regioni, formazione filo-russa. Il nuovo presidente, come normale che fosse, appena insediatosi licenziò numerosi funzionari troppo poco “amici” dell’occidente e iniziò ad intessere relazioni sempre più strette con la UE. Nel 2010, però,nonostante le grandi proteste che lo portarono al potere e una tambureggiante propaganda mediatica, Juščenko non arrivò nemmeno al 6% dei voti e dovette passare lo scranno più alto proprio a Viktor Janukovyč, che sconfisse al ballottaggio l’ex primo ministro Julija Tymošenko.
Janukovyč almeno inizialmente non manifestò particolare ostilità nei confronti dei vicini occidentali, tanto che arrivò ad un passo dal firmare un accordo con la UE per portare l’Ucraina dentro la zona di libero scambio. Quando la decisione sembrava ormai presa, Janukovyč fece inversione a U e firmò un accordo economico con la Russia che spinse nuovamente l’Ucraina verso est. Per questa decisione improvvisa e inaspettata, a Kiev scoppiarono forti disordini “molto organizzati”, noti col nome di Euromaidan, in cui si segnalarono le azioni violente del gruppo nazista Pravyj Sektor ,che imposero al presidente in carica di andarsene dal Paese e portarono alla nascita di un nuovo esecutivo. Le successive presidenziali vennero vinte, il sette giugno 2014, da Oleksijovyč Porošenko, noto imprenditore ucraino e leader del partito Solidarietà Europea. Il primo atto del nuovo presidente fu lo stralcio dell’accordo doganale con la Russia e la firma dell’ accordo commerciale con la UE bloccato dal suo predecessore….e si tornò a parlare insistentemente di adesione alla Nato; è proprio da quel momento, cioè dal 2014, che si sono inaspriti i problemi tra la Russia di Putin e l’Ucraina, Paese chiave per gli equilibri geopolitici di quell’area.
Crimea, Donbass e Protocolli di Minsk
Sempre nello stesso anno, dopo i violenti scontri di “Euromaidan” , avvennero due fatti di grande rilevanza:
- l’occupazione militare russa della Crimea e il successivo referendum sull’autodeterminazione: il 95% dei crimeani votarono a favore del ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione Russa.
- l’avvio del conflitto in Donbass (6 aprile 2014), precisamente nell’ Oblast’ di Donec’k e in quello di Lugansk: come in Crimea, anche in quell’area russofona del Paese venne proclamato un referendum sull’indipendenza, senza l’approvazione del governo centrale, che venne vinto dai separatisti con uno schiacciante 80%. Tale esito, com’era ovvio che fosse, non venne riconosciuto dal governo ucraino e ciò provocò un feroce inasprimento del conflitto con l’entrata in scena del gruppo ultra-nazionalista “Azov” e dei neonazisti di Pravij Sektor.
Nel tentativo di trovare una soluzione diplomatica, L’OCSE organizzò un tavolo di lavoro attorno al quale si sedettero Leonid Kuchma (vice presidente ucraino), Mikhail Zurabo (ambasciatore russo) , Alexander Zakharchenko (rappresentante della Repubblica Popolare di Donetsk) e Igor Plotnitsky (rappresentante della Repubblica Popolare di Lugansk). Il negoziato partorì un’intesa fondata su dodici punti denominata “Protocollo di Minsk”.
- Immediata sospensione dei combattimenti.
- OSCE controllore terzo del effettivo rispetto del cessate il fuoco.
- Introduzione della “legge sullo status speciale”: decentralizzazione del potere anche attraverso accordi provvisori di governance locale nelle regioni di Doneck e di Lugansk.
- Creazione di zone di sicurezza nelle regioni di frontiera tra l’Ucraina e la Russia per garantire un effettivo monitoraggio degli ispettori dell’OCSE.
- Rilascio immediato di tutti gli ostaggi e di tutte le persone detenute illegalmente.
- Una legge sulla prevenzione della persecuzione e la punizione delle persone che sono coinvolti negli eventi che hanno avuto luogo in alcune aree delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk, tranne nei casi di reati che siano considerati gravi.
- La prosecuzione del dialogo nazionale inclusivo.
- Introduzione di misure atte a migliorare la situazione umanitaria nella regione del Donbass.
- Garantire il diritto di organizzare elezioni locali anticipate, in conformità con la legge ucraina (concordato in questo protocollo) su “accordi provvisori di governo locale in alcune zone delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk” (“legge sullo statuto speciale”).
- Disarmo di tutti i gruppi illegali.
- Elaborare un programma finalizzato al rilancio economico del Donbass e la ripresa dell’attività economica nella regione.
- Piena garanzia circa la sicurezza fisica dei partecipanti ai negoziati.
A questo protocollo fece seguito un memorandum, composto da nove punti, finalizzato a rafforzare il punto numero uno, cioè il rispetto bilaterale della sospensione dei combattimenti. I risultati, però, non furono quelli sperati, e il continuo inasprirsi della tensione fra i separatisti e l’esercito nazionale spalleggiato dai gruppi ultra-nazionalisti, impose alle parti in causa di sedersi nuovamente attorno a un tavolo per tentare una seconda mediazione. Il negoziato partorì il protocollo Minsk2, composto dai seguenti tredici punti, che è tutt’ora in vigore.
- Immediata sospensione dei combattimenti dal 15 febbraio 2015.
- Ritiro di tutti gli armamenti pesanti per creare una zona di sicurezza tra entrambe le parti.
- Massima disponibilità da parte delle parti i campo di garantire all’OSCE la verifica del regime del cessate il fuoco e del ritiro degli armamenti pesanti.
- Confronto sull’organizzazione delle elezioni locali dal primo giorno dopo il ritiro.
- Legge sulla prevenzione della persecuzione e la punizione delle persone che sono coinvolti negli eventi che hanno avuto luogo in alcune aree delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk, tranne nei casi di reati che siano considerati gravi.
- Effettuare la liberazione e lo scambio di tutti i prigionieri e di coloro che sono stati illegalmente arrestati.
- Garantire l’accesso sicuro, la consegna, lo stoccaggio e la distribuzione di aiuti umanitari
- Stabilire le modalità per il pieno ripristino delle relazioni socio-economiche, inclusi inter alia il pagamento di sussidi e pensioni.
- Ripristino del pieno controllo da parte ucraina del confine di Stato lungo tutta la zona di conflitto che deve aversi dal primo giorno dalla conduzione delle elezioni locali.
- Ritiro di tutte le formazioni armate straniere, inclusi i mercenari, e dei veicoli militari. Disarmo di tutti i gruppi illegali.
- Realizzazione di una riforma costituzionale, entro la fine del 2015, che preveda una legislazione permanente sullo status speciale delle aree autonome delle regioni di Donetsk e Lugansk e che includa il diritto all’ autodeterminazione linguistica, la partecipazione dei locali organi di autogoverno nella nomina dei Capi delle procure e dei Presidenti dei tribunali delle citate aree autonome
- Discutere e concordare le questioni relative alle elezioni locali con i rappresentanti delle aree autonome delle regioni di Donetsk e Lugansk nell’ambito del Gruppo di contatto trilaterale in base a quanto previsto dalla legge ucraina sulle modalità dell’autogoverno locale nelle aree autonome delle regioni di Donetsk e Lugansk. Le elezioni saranno condotte con l’osservanza degli standard OSCE e l’osservazione dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE.
- Intensificare l’attività del Gruppo di contatto trilaterale anche attraverso la creazione di gruppi di lavoro per l’attuazione dei vari aspetti degli accordi di Minsk.
Purtroppo, anche in questo caso i punti del protocollo non sono stati seguiti e il conflitto ha causato la morte di quasi quindicimila persone tra le quali molti civili.
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Allargamento della Nato a est che ha coinvolto diversi paesi dell’ex Patto di Varsavia, rischio per la Russia di non avere più nell’Ucraina un fondamentale “stato cuscinetto”, ingerenze straniere volte a portare l’Ucraina su posizione filo-atlantiste, frattura insanabile tra le forze separatiste e l’esercito nazionale spalleggiato dai neonazisti, totale inadeguatezza della diplomazia occidentale che negli ultimi otto anni nulla ha fatto per scongiurare il peggio: questi, in sintesi, gli elementi più importanti che hanno fatto precipitare gli eventi negli ultimi giorni.
Fattore chiave per evitare il surriscaldamento delle relazioni tra la Russia e i Paesi del Patto Atlantico è la creazione di una striscia di “stati cuscinetto” lungo i confini occidentali russi: nulla di nuovo e nulla di particolarmente complicato da comprendere. Purtroppo, ciò che è avvenuto dal 1998 ad oggi, come si vede bene nella cartina, non ha rispettato minimamente quel presupposto, con l’ingresso nella Nato prima delle repubbliche baltiche e poi di altri Paesi un tempo interni al Patto di Varsavia.
Ora, per tentare di trovare una via d’uscita da un terreno sempre più scivoloso ed evitare che la situazione sfugga di mano, l’unica strada da percorrere è quella che porta a un confronto tra le parti, nella speranza che le forze occidentali comprendano che la Russia non potrà mai accettare una Ucraina dentro la Nato, e che su questo Putin ha bisogno di avere in mano un accordo ufficiale.