Anche gli uomini più avveduti, potenti e spregiudicati sono marionette del destino. È noto, per esempio, che la scelta di Tiberio come successore fu dettata ad Augusto dalle circostanze ed effettuata controvoglia: inizialmente il princeps aveva puntato sull’amatissimo nipote Marcello (per alcuni il puer cantato da Virgilio), che morì però poco più che ventenne di peste o di colera; più tardi egli vagheggiò di associarsi al trono altri due figli della sorella Ottavia (e del fedelissimo Agrippa), Gaio e Lucio Cesare, che perirono – l’uno di spada, l’altro verosimilmente di veleno – ben prima di affacciarsi alla maturità. Intorno all’anno zero all’imperatore ormai ultrasessantenne restava un solo candidato, scorbutico e poco interessato al potere, ma affidabile: Tiberio Claudio Nerone, sponsorizzato dalla Mater Patriae – e sua – Livia Drusilla, che sarebbe sopravvissuta allo sposo e avrebbe campato bevendo pucino (vino terrano?) fin quasi a novant’anni.
Ottaviano non aveva mai amato quel parente acquisito, rampollo della gens Claudia e di un suo tenace oppositore, ma riconoscendone le qualità lo aveva sempre utilizzato al meglio, rovinandogli fra l’altro l’esistenza. Se una sventurata caduta da cavallo non avesse scombinato i suoi piani il principe, senza scontentare l’ambiziosa consorte, avrebbe magari preferito l’alternativa costituita da Druso, che di Tiberio era il fratello minore – ma non è certo, perché quel giovane pieno di risorse coltivava il segreto proposito di restaurare la Repubblica nobiliare e Augusto, cui non sfuggiva nulla, deve aver subodorato qualcosa.
Druso nasce a Roma nel 38 a.C. da una famiglia, come detto, dell’alta aristocrazia senatoria: la madre Livia all’epoca ha però già abbandonato il marito per andare a vivere con il nuovo padrone dell’Urbe. A quanto risulta Augusto non ebbe figli maschi, ma alcuni storici gli attribuiscono la paternità proprio di Druso Maggiore, verso il quale fu sempre prodigo di elogi e favori. Il secondogenito di Livia Drusilla era quello che i media odierni, componendone uno stantio e frettoloso epitaffio, definirebbero un ragazzo “solare”: esuberante, espansivo e brioso guardava con ottimismo alla vita e cedeva volentieri all’azzardo, al tavolo da gioco come sul campo di battaglia. Era insomma il contrario di Tiberio, più anziano di lui di quattro anni, che forse Montanelli esagera a definire “musone”, ma che tendeva a chiudersi in se stesso, a diffidare del prossimo e a meditare ogni singola mossa. I due erano “come il giorno e la notte”, ma stranamente nutrivano un grande affetto reciproco: la Storia lo attesta. Sentivano probabilmente di completarsi a vicenda: più audace e affascinante il fratello minore, maggiormente assennato e in definitiva intelligente Tiberio Claudio, che non invidiò mai al consanguineo la predilezione mostratagli dai familiari e dal popolo. Osserviamo per un attimo le loro facce, immortalate nella pietra, e confrontiamo l’espressione distesa di Druso con quella accigliata e piuttosto mesta del futuro “nesiarca”, il cui sguardo indagatore metteva soggezione: niente di strano che le simpatie andassero tutte al più giovane dei due.
Druso percorre rapidamente il cursus honorum e nel 15 a.C., ad appena 23 anni, lo troviamo a capo di un esercito destinato, assieme a quello guidato da Tiberio, a sottomettere la Rezia, corrispondente all’incirca all’attuale Austria. I due fratelli concepiscono assieme una grande manovra a tenaglia che li porta a incontrarsi vittoriosi sul Danubio dopo aver coperto ciascuno centinaia di miglia alla testa di truppe al principio dubbiose, infine entusiaste dei propri duci. Lo stile di comando è diverso: Druso cerca spesso e volentieri lo scontro campale (tramanderà questa propensione al figlio Germanico, impulsivo quanto il genitore), mentre il primogenito di Livia si palesa più attento a risparmiare vita ed energie dei soldati e attacca battaglia quando è certo di poterla far sua. Investito nel 12 a.C. del governo della Gallia Comata, Druso Maggiore rivolge le sue attenzioni all’insalubre e misteriosa Germania, fonte di continue preoccupazioni per il dominio romano: passa più volte il Reno e imbaldanzito da una serie di brillanti vittorie sui nativi si addentra nelle impenetrabili selve, diretto sempre più a est. Le sue imprese paiono prefigurare quelle del più celebrato figlio Germanico (sarà proprio Druso, in realtà, a essere insignito per primo di quel cognomen): con sprezzo del pericolo e rischiando, almeno in un caso, di fare la fine che toccherà venti anni dopo a Varo, il condottiero avanza e semina distruzione fino all’Elba, soggiogando tribù e fondando città oggi bimillenarie. Cupidus rerum novarum emula e supera Cesare: non pago di costruire ponti fa scavare un canale – la fossa drusiana – per collegare il Reno con il mare settentrionale. Un rovinoso naufragio potrebbe costargli carissimo, ma a Roma il suo nome è sulla bocca di tutti: da che mondo è mondo i temerari attirano più dei pazienti pianificatori.
Tiberio però non si risente, e quando gli giunge notizia di un incidente occorso oltralpe al fratello si precipita al suo capezzale – secondo le cronache avrebbe percorso in sella duecento miglia in appena un giorno! L’unico elemento certo è che Druso è caduto da cavallo, forse dopo aver sconfitto e ucciso in duello un capo germanico: fatto sta che subisce una frattura alla gamba e che le cure non sortiscono effetto. La fine dell’ardito e valoroso soldato non ha nulla di epico, ma ricorda quella di Alessandro Magno, modello per tutti i capitani antichi. Spira per avvelenamento del sangue, cioè per sepsi, dopo una penosa agonia, con il solo conforto della presenza accanto a lui di Tiberio. Sarà il fratello maggiore – sempre impenetrabile, ma scosso nel profondo – ad accompagnare a piedi il feretro fino a Roma e poi a tessere l’elogio funebre del defunto. Correva l’anno 9 a.C. e Druso non aveva ancora compiuto trent’anni.
Sarebbe stato un buon imperatore? Probabilmente imperatore avrebbe rifiutato di diventarlo, imbevuto com’era di nostalgie repubblicane: Druso ci viene descritto dai contemporanei come un idealista, un amante dell’avventura dai saldi principi morali. Tiberio – che quell’alto incarico avrebbe accettato per senso di responsabilità, senza farsi illusioni su passato, presente e futuro – diede il suo nome al proprio figlio, che al pari dello zio non diventò vecchio.
A Nerone Claudio Druso è ancor oggi intitolato lo stadio di Bolzano, edificato negli anni ’30 da un fascismo ansioso di affermare l’italianità di quelle terre di confine – o perlomeno una supposta superiorità dei latini sui germani e i loro discendenti. C’è da augurarsi che la Cancel culture – ennesima ossessione prodotta dal totalitarismo neoliberale – non si abbatta su un personaggio romantico e in fondo positivo, che non possiamo certo colpevolizzare per la iattanza e le piccinerie di un regime che prima di implodere ingloriosamente usurpò senza ritegno meriti e successi altrui.