Premessa
Il 14 luglio ricorre l’anniversario dell’assalto dei parigini alla Bastiglia Saint-Antoine, evento ricordato per avere dato il via, nel 1789, alla Rivoluzione francese. La Francia del 1789 era un Paese di 717.944 chilometri quadrati, popolato da più di 28 milioni di abitanti, per la maggior parte contadini. La Francia controllava, inoltre, varie colonie d’oltremare (in Canada, nei Caraibi, nel subcontinente indiano). Vigeva la monarchia assoluta di diritto divino. In linea di massima il potere monarchico non era, cioè, temperato da poteri intermedi.
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In preda a una grave crisi per le casse reali, nell’agosto 1788 il Re Luigi XVI si era risolto a convocare gli Stati generali. Il successivo editto del 24 gennaio 1789 ne aveva fissato la prima convocazione a maggio dello stesso anno. Gli Stati generali erano l’assemblea degli ordini sociali che formavano la nazione. Essi erano l’aristocrazia, il clero e il terzo stato, quest’ultimo un amalgama di ceti sociali che non rientravano nei primi due ordini.
La Corona mirava a ottenere nuove imposizioni fiscali da parte di tutti gli strati sociali. (La nobiltà si era di recente opposta con pervicacia a un tentativo del Sovrano di applicare anche a essa una tassa). Ma gli Stati generali si erano subito divisi sulla questione del voto. Esso doveva avere luogo ‘per stato’ – un voto per ciascun ordine –, oppure per singolo membro del consesso – ovvero ‘per testa’–? Se si fosse votato ‘per stato’, nobiltà e clero sarebbero risultati chiaramente sovra rappresentati e in grado di annullare qualsiasi proposta proveniente dal terzo stato. Così, dopo qualche settimana di schermaglie, quest’ultimo si era riunito in separata sede e aveva dichiarato la nascita dell’Assemblea nazionale, in rappresentanza dell’intero corpo della nazione. Nonostante un tentativo del Re di disperderli con la forza, i componenti dell’Assemblea avevano giurato di non separarsi finché il Paese non avesse avuto una nuova Costituzione.
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La Bastiglia era la vecchia prigione reale dell’Ancien règime. Ma era anche un deposito di polvere da sparo. Dovendo rifornire la propria Guardia armata appena costituita, dopo assalti a varie armerie fu proprio la Bastiglia, il 14 luglio, a essere presa di mira dal popolo.
La presa della Bastiglia era stata preceduta, nella primavera del 1789, da vari sommovimenti popolari. Davanti a un atteggiamento dell’appena proclamata Assemblea nazionale giudicato troppo remissivo e allertato da voci riguardanti movimenti dell’esercito di Luigi XVI vicino a Parigi, il popolo, furente, ruppe gli indugi. Il gesto fu l’esempio per ampi movimenti di ribellione antifeudale nelle province (la ‘Grande paura’) e diede impulso all’Assemblea nazionale affinché questa abolisse i privilegi dell’aristocrazia. La stessa autorità monarchica – nonostante mille esitazioni da parte dei rivoluzionari – risultò alla fine compromessa. Il contegno ondivago di Luigi XVI, fece a questi sprecare l’immenso capitale politico del quale la monarchia, nel 1789-90, tuttora godeva.
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Il subbuglio del 1789 può essere visto come l’accadimento che, nell’ambito della società francese ma non solo, rimosse finalmente la crosta delle antiche strutture feudali e delle presupposte concezioni del potere. Al di sotto di questa crosta covavano da lungo tempo vivaci fermenti, frutto di una irreversibile mutazione dell’assetto sociale. Anche l’influenza politica della Chiesa ne risultò alla fine minata.
La drammatica frizione all’interno del rigido ordine sociale basato sul privilegio e sulla tradizione, impediva alla monarchia di rispondere efficacemente alle pressioni finanziarie causate dalle proprie ambizioni imperiali. (La guerra dei Sette anni fu una causa delle difficoltà del regno). Il Re dovette fronteggiare forti richieste di riforme costituzionali in cambio del consenso a riformare il sistema fiscale. Dato che la situazione non si sbloccava, il sovrano dovette fare ricorso alla convocazione dell’unico organo di rappresentanza dei corpi sociali di Francia: gli Stati generali.
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Il substrato culturale e ideologico conosciuto come ‘Illuminismo’ forniva giustificazione e conferma alla brama di protagonismo delle ‘nuove’ e dinamiche classi sociali. Tutto doveva essere sottoposto al vaglio della ragione. La tradizione, con il suo portato culturale e le sue conseguenze sul piano politico e sociale, poteva e doveva essere messa in discussione. Gli intellettuali e gli scrittori del XVIII secolo invocavano l’uso della ragione – invece delle vecchie usanze, della fede, della superstizione – quale base per l’organizzazione della società. E tramite la crescente diffusione della stampa e della ‘panflettistica’, si ingrossavano le fila dei proseliti di atteggiamento critico nei confronti del potere costituito. Uno scritto influente sugli eventi della Rivoluzione francese fu, in particolare, ‘Cos’è il terzo stato’, opera dell’abate Sieyès, deputato agli Stati generali. In esso, l’autore offriva soluzioni piuttosto radicali alla questione della rappresentanza politica nel Paese.
Obiettivo immediato degli strali lanciati dagli illuministi doveva necessariamente risultare la monarchia di diritto divino. Si basava questa, su una dottrina politica che faceva derivare la legittimazione della monarchia direttamente dalla volontà di Dio. Il monarca deteneva il potere di governare per grazia divina, con la conseguenza che nessuna autorità terrena doveva ambire a ingerirsi nell’esercizio del governo.
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L’esito della Rivoluzione rimase a lungo incerto. Si può parlare di un processo caotico, segnato da avanzamenti rivoluzionari e contraccolpi reazionari. Mossi dai rispettivi interessi, all’interno del vasto e composito schieramento rivoluzionario si misurarono ceti sociali diversi, coinvolgendo immancabilmente alternative concezioni della democrazia e del potere, della struttura economica del Paese e delle stesse fondamenta costituzionali dello stato in fase di edificazione. Un travaglio che si protrasse fino al 1795, quando si ebbe l’insediamento di un Direttorio politico, l’affermazione definitiva della borghesia moderata e l’uscita di scena del movimento popolare dei sanculotti. Dopodiché vi fu l’avvento di Napoleone Bonaparte, la costruzione dello stato bonapartista – ‘borghese’ e autoritario –, l’esportazione dei principi rivoluzionari attraverso la guerra e l’Impero, infine, nel 1815, la restaurazione della monarchia (anche se, al termine dell’epopea napoleonica, niente sarebbe più stato come prima).
Cronaca delle fasi salienti
Come anticipato, l’assalto alla Bastiglia era stato preceduto da diversi tumulti popolari. In particolare, il 28 aprile il quartiere Saint Antoine di Parigi era insorto per opporsi a un tentativo di abbassamento dei salari in atto in un’importante fabbrica. Le autorità ordinarono la repressione, facendo più di 300 vittime. Anche nel quartiere di Saint Marcel vi furono vibranti proteste, provocate da carenza di cibo, fame e povertà.
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Il Regno di Francia si trovava nel pieno di una spaventosa crisi economica e finanziaria. I creditori esteri reclamavano che i debiti venissero onorati, il raccolto del 1788 era stato rovinato dal maltempo, l’accordo di libero scambio con la Gran Bretagna stipulato alla fine della guerra dei Sette anni provocava l’afflusso di beni – soprattutto tessili – a buon mercato, che mandavano sul lastrico i produttori francesi.
Non trovando rimedio alla persistente crisi del bilancio statale e alla asperrima crisi economica e sociale, il Re si vide costretto a chiamare gli Stati generali. A riprova della postura assolutistica della monarchia francese, si rammenti che ciò non avveniva dal 1614.
Un clima di fervore e aspettative di cambiamento accompagnò, nel Paese, le procedure per l’elezione dei rappresentanti del terzo stato che avrebbero preso parte all’assemblea. Quando gli Stati generali convennero a Versailles, i delegati del terzo stato – perlopiù borghesi, commercianti, avvocati – vi portarono i ‘cahiers de doléances’ o liste delle doglianze. Si trattava di un’infinità di lagnanze che gli elettori – anche semplici cittadini, come contadini e operai – avevano consegnato loro. Esse riguardavano quasi sempre l’applicazione di leggi arbitrarie e l’eccesso di gravame fiscale e diritti signorili che pesavano sulla vita quotidiana. (Nel mondo rurale, in particolare, non vi era praticamente alcuna attività per la quale non venisse richiesto il versamento di un balzello). Il compito del terzo stato non poteva, quindi, limitarsi all’ascolto delle richieste del sovrano.
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A seguito della ‘rottura’ avvenuta fra i tre ordini in seno agli Stati generali, provocata dalla questione del voto, il 17 giugno 1789 si costituì l’Assemblea nazionale. In essa confluirono anche diversi rappresentanti del clero. Il 20 giugno, allora, il Re fece trovare chiuso il salone degli Stati generali.
I rappresentanti del terzo stato, convenuti allora in altro ambiente, detto ‘sala della pallacorda’, effettuarono il famoso giuramento: non dividersi finchè non fosse stata approvata una nuova Costituzione del regno.
Il 23 giugno il Re fece ordinare loro lo sgombero, non riconoscendo l’Assemblea, ma i delegati non si mossero. ‘Siamo qui per volontà del popolo, ce ne andremo solo se costretti dalle baionette’, fu la celebre dichiarazione di Mirabeau.
Cominciò così il ‘doppio gioco’ di Luigi XVI: formalmente egli dichiarò di riconoscere finalmente l’Assemblea nazionale; effettivamente, schierò le truppe al Campo di Marte, fra cui tedeschi e svizzeri.
In riscontro il popolo, nuovamente in agitazione, il 12 luglio decise di radunarsi a Le Tuileries e a Piazza Luigi XVI. Venne attaccato dalle truppe tedesche. In quell’occasione, però, i battaglioni francesi si schierarono con il popolo parigino e riuscirono a respingere le truppe straniere.
Il 13 luglio venne costituita la comune di Parigi e la pertinente Guardia municipale armata.
Il 14 luglio, come anzidetto, avvenne l’attacco alla Bastiglia. Dopo ore di conflitto il governatore della prigione, che aveva fatto sparare sulla folla, venne linciato e decapitato.
Il 17 luglio il Re fu costretto a cedere. Ricevette dal nuovo Sindaco della comune di Parigi le chiavi della città. Di fatto, si inaugurò una stagione durante la quale la monarchia si trovò costretta a condividere il potere con l’Assemblea nazionale.
Il 4 agosto 1789 quest’ultima votò affinché venissero aboliti i privilegi nobiliari e clericali, nonché gli obblighi e le servitù di cui l’aristocrazia si era valsa da tempo immemorabile.
Nel corso dello stesso mese, vi fu la sanzione dei sacri e inalienabili diritti dell’uomo, tramite la celebre Dichiarazione. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 26 Agosto 1789, proclamò i principi fondamentali sui quali si basa la società francese; il famoso incipit è ‘Gli uomini nascono e restano liberi nell’eguaglianza dei diritti’.
Libertà, proprietà e sicurezza, diritto a resistere all’oppressione e libertà di stampa arricchirono il catalogo dei nuovi diritti dell’individuo.
Questo periodo della Rivoluzione viene tuttora contrassegnato dai principi di ‘liberté, fraternité, égalité’, in esso cristallizzati.
Sul piano organizzativo – istituzionale, la comune di Parigi formò 48 sezioni locali, come era rimasto stabilito in Assemblea. Nelle sezioni si sperimentò la democrazia diretta. Tutti i cittadini partecipavano alle riunioni. Inoltre, ogni sezione si dotò di un battaglione della Guardia nazionale.
A capo della Guardia nazionale venne collocato il generale Lafayette, un militare di indiscussa fede monarchica. (L’intento dei rivoluzionari era, in questa fase, di tipo compromissorio, ponendo la Rivoluzione nell’alveo della monarchia costituzionale).
Tuttavia, a dispetto delle aspettative dei ceti popolari, quando si trattò di deliberare circa il problema del diritto di voto, giunse una delusione. Il diritto di voto sarebbe stato universale? No, prevalse l’orientamento a favore del sistema censuario.
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Nonostante tutto, il Re continuava a eludere la firma sulle deliberazioni assembleari dell’agosto 1789. Poneva il veto. Addirittura, il 1 ottobre si tenne uno sfrontato banchetto reale per celebrare le truppe arrivate dalle Fiandre. Ma circolò un articolo di stampa, il quale conteneva il resoconto di un testimone oculare che aveva assistito alla festa, facendo montare lo scandalo e lo sdegno popolare. I convenuti avevano gettano via le coccarde tricolori (simbolo del nuovo corso monarchico-costituzionale) e deriso la Rivoluzione. Ancora una volta, il Re faceva buon viso a cattivo gioco. Ma non era ancora il momento della definitiva resa dei conti.
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Il 5 ottobre migliaia di donne parigine esasperate dalla crisi economica si diressero verso Versailles. Superando la riluttanza di Lafayette, le sezioni della comune colsero l’occasione per inviarvi la Guardia nazionale e pretendere dal Re la firma delle deliberazioni di agosto. Luigi XVI continuava a tergiversare, facendo vaghe promesse, finché il giorno dopo la residenza reale venne invasa. Diverse guardie regie perirono. Lafayette riuscì a condurre il Re a più miti consigli, convincendolo che sarebbe stato saggio un suo ritorno a Parigi, a Le Tuileries, dove avrebbe avuto sede anche l’Assemblea nazionale.
Intanto, l’Assemblea nazionale approvò il sistema di voto maschile per censo. Soltanto chi pagava le tasse avrebbe avuto diritto di voto. Il deputato Robespierre si oppose, avvertendo che privare la maggioranza dei cittadini dei diritti che costituiscono la sovranità nazionale sarebbe equivalso a perseguire la formazione di una nuova aristocrazia: l’aristocrazia dei ricchi.
Paventando nuove sollevazioni popolari, in Assemblea venne anche decretata la legge marziale e il divieto di dimostrazioni e manifestazioni spontanee. Il segnale di una manifestazione sgradita all’Assemblea sarebbe stato l’ostensione di una bandiera rossa sull’edificio della comune.
Non tutti, all’interno delle sezioni, approvarono. Anche entro la Guardia nazionale si registrarono malumori. I soldati di estrazione popolare si chiedevano se la Rivoluzione fosse a rischio.
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Un anno dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1790, si tenne a Parigi la festa della Concordia. Si celebrava la cosiddetta Federazione, un’armonia di facciata fra il Re, il clero e la Rivoluzione. La maggior parte del clero appariva schierato con la rivoluzione dei poveri, considerata in linea con le sacre scritture.
Nel novembre del 1790, però, l’Assemblea nazionale votò a favore della costituzione civile del clero e dell’elezione popolare dei vescovi. Allora i preti si divisero in coloro che giurarono la loro ‘costituzionalizzazione’ e in preti refrattari, questi ultimi residenti soprattutto nelle province. I primi vennero prontamente scomunicati dal Papa di Roma, con gravi problemi di coscienza per essi.
Intanto, Luigi XVI continuava a sperare in un suo ritorno su un trono sgombrato dall’interferenza dell’Assemblea e della comune. Catturato con la famiglia a Varenne nel giugno del 1791, nel bel mezzo di un tentativo di fuga verso il confine, venne ricondotto a Parigi in un silenzio glaciale.
Nel suo giornale L’Amì du peuple, Marat denunciò il tradimento del Re e dei suoi fiancheggiatori senza mezzi termini e circostanze attenuanti.
Il partito dei Cordiglieri chiese l’abdicazione del sovrano e la cessazione della monarchia costituzionale. Incuranti dei rischi adombrati da Robespierre, i Cordiglieri presentarono una petizione a favore della repubblica e organizzarono una dimostrazione presso il Campo di Marte (17 luglio 1791). Ma la Guardia nazionale, con a capo Lafayette, non esitò a reprimerla con le armi, lasciando sul terreno oltre 50 morti e provocando il ferimento di centinaia di persone. I capi Cordiglieri, come Danton, dovettero lasciare la città. Nelle sezioni popolari si levò lo sgomento per l’accaduto.
Cosa bisognava fare del Re? Questi non smetteva di pensare al potere assoluto. Nella primavera del 1792, ad aprile, durante la guerra contro l’impero di Francesco II d’Austria – voluta soprattutto dal partito della Gironda, prevalente in Assemblea –, il Re contava nella sconfitta della Francia, così da neutralizzare la Rivoluzione. Ma le prime sconfitte dei francesi e l’avvicinamento dei prussiani a Parigi sortirono l’effetto di portare al culmine la sfiducia nella coppia reale e di imprimere un tratto decisamente popolare alla Rivoluzione.
Il 20 giugno 1792 i membri delle sezioni invasero l’Assemblea nazionale, chiedendo la rimozione del Re e il diritto di voto universale. Luigi XVI venne maltrattato, umiliato e costretto a indossare un tipico berretto popolare.
La figura protagonista di questa fase della Rivoluzione fu il sanculotto, l’attivista delle sezioni popolari. Marat fu il corifeo dei sanculotti. Intanto, persisteva lo stato di allarme per via della minaccia straniera alla Rivoluzione. Nelle sezioni vi fu un accorato appello alle armi per la salvaguardia della patria. A sostegno delle sezioni arrivarono anche i battaglioni dei volontari marsigliesi. Giunse persino un temibile ultimatum, intimato ai parigini da parte del vertice militare prussiano Brunswick: il Re doveva restare incolume, pena letali conseguenze per la popolazione della capitale.
Le sezioni reagirono muovendo i battaglioni della Guardia nazionale verso Le Tuileries, residenza di Luigi XVI. Nonostante il timore delle armate prussiane, sanculotti e marsigliesi diedero il via a una vasta insurrezione, la cui posta in gioco fu il controllo di Parigi e la deposizione del sovrano. Così, la comune venne rovesciata e sostituita dalla ‘comune insurrezionale’.
Fazioni nobiliari cercarono di difendere il Re, ma alla fine i sanculotti invasero la sala dell’assemblea, dove Luigi XVI si era rifugiato. Era il 10 agosto 1792. Giunse a cessazione anche il funzionamento dell’Assemblea nazionale. Nacque al suo posto la Convenzione nazionale. La comune prese in custodia il Re, in attesa del processo che ne avrebbe determinato la sorte. Per il momento, il popolo aveva avuto ragione.
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Le monarchie controrivoluzionarie erano però, tuttora, motivo di fondato allarme. Gli austriaci si trovavano a Verdun. In un clima pervaso da sospetto e paura di tradimenti, tra il 2 e il 6 settembre i sanculotti giustiziarono sommariamente molti preti cattolici e molti detenuti nelle carceri. Il ‘panico di settembre’ fu dovuto alla prospettiva della controrivoluzione, il timore di perdere tutto quanto la Rivoluzione aveva fino ad allora ottenuto. Sorprendentemente, il 20 settembre gli eserciti francesi rivoluzionari vinsero contro i prussiani a Valmy. La convenzione nazionale dichiarò decaduto il Re. Vennero anche approvati il nuovo culto – che si rifaceva alla classicità – e il nuovo calendario repubblicano. La sorte di Luigi XVI generò un acceso dibattito. Il processo si tenne alla Convenzione: 687 deputati votarono la colpevolezza del Re, ma molti meno furono coloro che votarono a favore della condanna a morte (387). La sentenza venne eseguita il 21 gennaio 1793.
Fu l’inizio della prima Repubblica.
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Nell’ambito della Convenzione nazionale si vennero a formare schieramenti diversi: da una parte i Girondini – con a capo Brissot e Sant Etienne – che avevano difeso il Re, dall’altra la fazione Giacobina dei Montagnardi – legati alle sezioni popolari – fra cui si distinsero Robespierre, Dantone Marat.
Intanto, altre corti europee – temendo il contagio dell’esempio sovversivo – andavano a unirsi all’Austria, già impegnata nella crociata antifrancese.Nelle sezioni popolari, composte in maggioranza da lavoratori, si sperimentò e realizzò la democrazia diretta a suffragio universale.
La minaccia straniera diretta a soffocare la Rivoluzione era più che mai viva, ma nelle sezioni era altrettanto temuto il nemico interno controrivoluzionario. Si levarono voci che chiedevano l’istituzione di un tribunale rivoluzionario. Fu Danton, nel marzo 1793, a ottenere dalla Convenzione il voto favorevole alla creazione degli strumenti giudiziari – i tribunali speciali – preposti al giudizio dei nemici dello stato. Si affermò un generale clima di sospetto: comitati di sorveglianza furono incaricati del controllo delle attività dei cittadini; venne approvata una legge chiamata, appunto, ‘dei sospetti’.
Fu il ‘Terrore’.
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Il ‘Terrore’ emerse in reazione all’urgenza politica di contrastare gli antagonisti interni del processo rivoluzionario e all’urgenza militare di difendere il Paese dall’attacco delle potenze straniere.
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Il 6 aprile 1793 si istituì il Comitato di salute pubblica, composto di 12 membri, fra i quali emerse la figura di Robespierre. I sanculotti pretesero e ottennero numerose misure di carattere sociale, fra le quali spiccò il calmiere dei prezzi. Oltre allo scontro fra repubblicani ed ex monarchici, un’altra frattura nella società francese si dimostrò particolarmente virulenta: quella religiosa, particolarmente sentita in Vandea. Le masse di contadini cattolici si rivoltarono, temendo la ‘scristianizzazione’ del Paese. Sempre in Vandea, sorse inoltre un movimento contro la coscrizione militare.
I repubblicani dovettero, così, far fronte e nemici interni ed esterni. Nella fattispecie, soprattutto aristocratici fuoriusciti e monarchici, che costantemente speravano nella sconfitta degli eserciti repubblicani.
I Girondini cercarono di far eliminare Marat. Lo denunciano per istigazione all’insurrezione, ma Marat vinse comunque la causa intentata contro di lui dinanzi al Tribunale rivoluzionario. (Aprile 1793). Fuori dal tribunale, i sanculotti lo portarono in trionfo.
I Girondini divennero perciò obiettivo della rabbia popolare. I deputati della Convenzione fedeli al capo della Gironda, Brissot – il 2 giugno 1793 – vennero espulsi dall’assemblea e arrestati. Marat venne comunque ucciso il 13 giugno, proditoriamente, per opera di una Girondina. Alla fine di ottobre del 1793, Brissot e 21 suoi seguaci furono processati e ghigliottinati.
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In questa fase della Rivoluzione, dominata dai Montagnardi, la Convenzione approvò una nuova Dichiarazione dei diritti, di carattere più popolare, sociale e ‘assistenziale’. (15-17 aprile 1793). Fu votata anche una seconda Costituzione della Francia rivoluzionaria (24 giugno 1793), che spazzava via la precedente, quella monarchico-costituzionale del 1791. La Costituzione montagnarda ambiva a una vera democratizzazione del Paese e conteneva genuini piani di redistribuzione delle ricchezze. A causa del permanente stato di emergenza dovuto ai conflitti interni ed esterni, la Costituzione rimase, tuttavia, praticamente inattuata.
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La fase giacobina della Rivoluzione si caratterizzò inoltre per il tentativo di ‘scristianizzazione’ della società francese, con l’introduzione del ‘culto della ragione’ e dell’Essere supremo. Non vi fu più freno al ‘Terrore’, né pietà per gli oppositori. Libertà, uguaglianza, fraternità o morte divenne il nuovo motto del periodo. I vandeani vengono trucidati e migliaia. A Lione si contarono circa 2000 giustiziati. Anche la vedova di Luigi XVI, la Regina Maria Antonietta, finì a processo per cospirazione. La sentenza capitale venne eseguita il 16 ottobre 1793.
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Ma, a un certo punto, dissidi cominciarono ad affiorare anche all’interno della Montagna: da un lato si trovarono gli ‘indulgenti’, dall’altro gli ‘arrabbiati’. Erano, questi ultimi, gli eredi di Marat, fra i quali si distinse Ebert. Secondo costoro, il contegno di Robespierre era fin troppo clemente nei confronti degli oppositori del Comitato di salute pubblica. Fra i primi figuravano invece Danton e Desmoulins.
Robespierre rispose drasticamente ai malumori presenti in entrambe le fazioni. Il 24 marzo 1794, dopo una condanna per tentata insurrezione emessa dal Tribunale rivoluzionario, Ebert fu giustiziato. Robespierre fece poi chiudere il giornale di Desmoulins, Le Viux Cordelier. Desmoulins, amico di Danton, era stato uno dei protagonisti della presa della Bastiglia ed era, ora, una delle prominenti voci critiche del ‘Terrore’.
Desmoulins, Danton e altri quattordici indulgenti furono condotti a processo. L’autodifesa di Danton fu particolarmente veemente e accorata. In verità, i capi d’accusa rivoltigli erano risultati piuttosto generici. Dovette, ciononostante, salire il patibolo il 5 aprile 1794. Lo stesso giorno vi fu l’esecuzione di Desmoulins e degli altri accusati. Il processo istruito contro Danton portò uno dei principali protagonisti della Rivoluzione sotto la lama della ghigliottina.
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Ma era ormai subentrata una certa stanchezza riguardo all’uso del patibolo e al clima di sospetto che era ovunque dilagato. Gli avversari della Rivoluzione, vittime del tribunale del ‘Terrore’, furono migliaia. (Si stima, circa 17000 unità). Inoltre, la ‘Repubblica della virtù condotta da Robespierre si stava caratterizzando per un’eccessiva concentrazione del potere centrale e del potere personale. I Dipartimenti locali vennero commissariati. Fu decretato che tutti i casi di cospirazione sarebbero stati di competenza del Tribunale rivoluzionario di Parigi. Le carceri della capitale furono, perciò, sommerse di detenuti ‘sospetti’. Si pensò di abbreviare e semplificare le procedure che dovevano portare gli accusati a sentenza. Venne incrementato l’organico del corpo giudicante e venne limitato il diritto alla difesa degli imputati. La figura di reato del quale doveva occuparsi il Tribunale venne riclassificata come ‘nemico del popolo’. Ma ‘nemico del popolo’ costituiva una definizione talmente vaga che qualunque soggetto ‘sospetto’ poteva incorrere in una denuncia. Un ulteriore impulso al ‘Terrore’.
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Anche la ‘scristianizzazione’ si stava rivelando un disastro. Si pensò, allora, di incanalare la spiritualità della nazione in direzione maggiormente patriottica. Ne derivò il culto dell’Essere supremo. Il popolo francese avrebbe riconosciuto l’esistenza di un Essere supremo e dell’immortalità dell’anima. Tali principi erano un richiamo alla giustizia, dunque sociali e repubblicani.
Pur deplorando gli eccessi della ‘scristianizzazione’, Robespierre dichiarò alla Convenzione che il compito della Repubblica era la promozione della virtù; rammentò in proposito l’opera di Rousseau, l’architetto della religione civica. La celebrazione nazionale del culto dell’Essere supremo venne fissata per i giorni tra il 9 e il 20 giugno 1794. A Parigi fu lo stesso Robespierre a officiarla. Egli colse l’occasione per declamare un elogio della virtù e della religione repubblicana. Alcuni lo irrisero, altri videro con preoccupazione il suo atteggiamento egocentrico. Un sentimento che veniva avvertito, ormai, da un numero crescente di deputati della Convenzione e di membri dei Comitati di governo. E all’interno degli organi istituzionali persisteva l’insidioso clima di sospetto. Nessuno si sentiva più al sicuro.
Dopo un periodo di assenza (dovuta, sembra, a sue tendenze paranoiche) il 26 luglio Robespierre riapparve alla Convenzione per denunciare un’ampia cospirazione contro la libertà pubblica. I traditori – vari deputati, componenti del Comitato di sicurezza, più diversi membri dello stesso Comitato di salute pubblica – dovevano essere puniti e le loro fazioni annientate.
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Tutto considerato, il capro espiatorio utile per poter portare a termine la stagione del ‘Terrore’, altri non poteva essere che Robespierre. (Il protagonista della fase giacobina della Rivoluzione venne ghigliottinato il 28 luglio 1794).
La caduta di Robespierre fu particolarmente drammatica. Non comportò soltanto la resa dei conti nell’ambito della Convenzione dove il 27 luglio – 9 termidoro del calendario rivoluzionario –, al grido ‘abbasso il tiranno’, fu impedito a Robespierre di parlare.
I due poteri, quello della comune insurrezionale e quello della Convenzione si trovarono ora a confronto. La Convenzione aveva ormai visto la dissipazione della maggioranza Montagnarda. (In suo luogo si stava facendo strada lo schieramento moderato della Palude).
Lo stesso 27 luglio Robespierre e il fedele Sant-Just vennero fatti arrestare dalla Convenzione. Si sparse voce che erano stati liberati, facendo tirare un provvisorio sospiro di sollievo ai militanti delle sezioni parigine. Rifugiatosi all’Hotel de Ville, Robespierre non fece tuttavia appello al popolo. Così, i battaglioni emanazione delle sezioni restarono incerti sul da farsi, mentre le forze della Guardia nazionale fedele alla Convenzione risolsero la situazione a favore di quest’ultima, neutralizzando la comune insurrezionale. (Quel giorno, delle 48 sezioni soltanto le guardie di 17 di esse si mossero; assembrate in ‘Place de Grève’ nessuna, alla fine, intervenne).
Il giorno dopo, anche Robespierre salì il patibolo in ‘Place de la Revolution’. Nell’arco delle 24 ore seguenti, Saint-Just e altri 10 ‘Robespierristi’ ebbero lo stesso destino. Altri 60 seguirono di lì a breve. Fu la ‘reazione termidoriana’. Cominciò il ‘Terrore bianco’, con l’epurazione di repubblicani e Giacobini. Il club dei Giacobini venne soppresso nel novembre del 1794. Il ‘Terrore bianco’ proseguì durante il 1795.
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L’ultimo atto di un certo rilievo dei sanculotti avvenne nel maggio 1795. Ma fu un fuoco fatuo. Dopo un ultimo tentativo di occupare l’assemblea, si ebbe il loro disarmo a opera della Guardia nazionale.
La reazione termidoriana era stata portata a compimento. La Rivoluzione borghese aveva prevalso. Il movimento rivoluzionario-popolare era stato domato. Il 1795 fu anche l’anno della nuova Costituzione, di carattere decisamente conservatore.
La Costituzione venne ratificata il 22 Agosto 1795 e rimase in vigore fino al colpo di stato del 9 novembre 1799, attuato da Napoleone Bonaparte. Stabiliva una repubblica liberale, con un parlamento bicamerale e un esecutivo – chiamato Direttorio – formato da cinque membri.
Nel 1828 uscì ‘La cospirazione degli uguali’, scritto da un ex Giacobino impenitente, Filippo Buonarroti. Si tratta della narrazione della cronaca che portò al patibolo Gracchus Babeuf, colpevole di avere ordito nel 1796 una congiura mirante al rovesciamento del Direttorio, con lo scopo di restaurare e riproporre la promessa egualitaria dell’anno secondo.
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Conclusioni
Diverse interpretazioni sono state date al fenomeno della Rivoluzione del 1789, l’evento che si colloca sul liminare fra la storia moderna e la storia contemporanea. Il contemporaneo Burke ha considerato l’Antico regime connotato da stabilità e funzionalità. Esso deve quindi essere stato sovvertito da pressioni esterne. La caduta deve essere ascrivibile allo spirito dell’Illuminismo che, nutrendo un’instancabile e irresponsabile vis polemica, ha finito per minare la fede religiosa, la monarchia e l’ordine sociale. Una visione – quella di Burke – piuttosto misoneista. Nella visione del pensatore irlandese, la Rivoluzione è stata un atto non necessario e, se riparametrata al fine utile alla causa della libertà, nientemeno che controproducente.
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Ma la Rivoluzione è stata considerata, prima di tutto, l’incedere della moderna società capitalistica e borghese, con l’effetto della messa al bando di ciò che restava delle istituzioni medievali e con l’instaurazione della democrazia liberale. (Es.: Jaurès, Lefebvre, Soboul).
Nonostante avesse perduto – in Francia come in altri Paesi europei – potere politico, l’aristocrazia manteneva una supremazia gerarchica all’intero della società e conservava innumerevoli privilegi e guarentigie. Anche il clero versava in condizioni di notevole privilegio. Il clero – circa 200000 persone – poteva contare sul 10% della terra e sulle relative imposte; la Chiesa riscuoteva la decima, percepita in natura su tutti i raccolti. Viceversa, la condizione delle genti nelle campagne era, a dir poco, miserevole. Esse erano ancora ampiamente soggiogate al potere dei signori feudali. Portavano, di fatto, l’insopportabile fardello dell’Ancien Règime.
Degli oltre 28 milioni di abitanti che costituivano la nazione francese, fra 22 e 23 milioni erano contadini. I nobili e chierici formavano neanche il 2% del totale. La proprietà della terra era molto ambita da parte dei contadini. La nobiltà (circa 350000 persone) deteneva il 20% delle proprietà fondiarie. La borghesia il 30%. La restante parte era di contadini piccoli proprietari, i quali restavano spesso vincolati a pesanti tributi e a diritti signorili.
E non andava certo meglio per le masse popolari urbane. Piccoli artigiani, bottegai, lavoratori a giornata, garzoni, operai delle manifatture vivevano a stento e non si intravedevano segnali che potessero far presagire un miglioramento. Soltanto per il pane serviva circa la metà del reddito individuale di queste masse disgraziate. Quando si riusciva a spuntare un aumento, i grami salari neanche lontanamente tenevano il ritmo di incremento del costo della vita. Alla vigilia della Rivoluzione, la Francia era una polveriera a elevato potenziale. Bastava accendere la miccia.
Come detto, la nobiltà, pur mantenendo il privilegio sociale, era stata spogliata del potere politico. Si assistette allora a una reazione – o tentativo di riscossa – aristocratica, nei due filoni della nobilita di spada e nobiltà di toga, che diede impulso e sostegno intellettuale alla causa della libertà contro l’assolutismo. (Notevole esponente di tale reazione fu Montesquieu). Si fece sempre più palpabile, inoltre, un abbrivio innovatore derivante dalle classi borghesi detentrici della nuova ricchezza – commerciale, proto industriale e finanziaria – più liquida rispetto alla ricchezza della terra. La borghesia (non solo in Francia) continuava a svilupparsi, anche grazie alle scoperte scientifiche del secolo precedente e all’espansione coloniale.
Immancabilmente, cresceva il suo potere economico e culturale e cresceva la coscienza del proprio ruolo. Si trattava di una classe fiduciosa nel progresso, convinta di rappresentare la nazione. Essa esercitò una certa attrazione verso le altre classi sociali ed era destinata a venire in collisione con la classe immobile dell’aristocrazia e con l’ordine giuridico e istituzionale costituito.
A differenza della nobiltà, la borghesia reclamava la libertà facendo leva sui ‘diritti naturali’ piuttosto che su diritti storicamente acquisiti, i quali facevano leva sulla tradizione. La borghesia fece propria la teoria contrattualistica. Gli uomini si associano sulla base di un libero accordo fra di loro; i governanti basano il loro potere su un patto stipulato con i consociati; il potere deve essere rivolto al benessere della collettività e deve garantire i diritti dei cittadini.
Capisaldi di questo filone di pensiero sono, oltre la libertà politica, l’uguaglianza formale dei diritti, la libertà di impresa e di profitto. Il nuovo regime della proprietà borghese finì per determinare, con la rivoluzione, la qualità delle istituzioni e la distribuzione del potere.
Dalla proprietà della terra, appannaggio dell’aristocrazia, si passò a nuove forme di proprietà e ciò alimentò l’ascesa della borghesia.
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Questo sviluppo, tuttavia – nella sua apparente linearità –, ebbe a confondersi con la presenza, sulla scena rivoluzionaria, delle masse contadine e dei ceti inferiori urbani.“Il terzo stato è tutto” scrisse Sieyès nel Gennaio del 1789. Ma questo non toglie che “tutto” era composto da vari differenti gruppi sociali, ognuno dei quali ebbe un proprio ruolo nello svolgimento degli eventi rivoluzionari.
In effetti, la borghesia ondeggiò fra la tentazione di stabilire una qualche forma di compromesso e conciliazione con la vecchia nobiltà redditiera e l’impellenza di volgersi alle masse contadine – intolleranti nei confronti dei privilegi feudali – il cui appoggio risultò più volte necessario al fine di evitare ‘la reazione’ aristocratica e monarchica.
Le masse popolari – urbane e rurali –, dovendo fronteggiare il problema della sussistenza, più che ai pomposi proclami sulle libertà erano sensibili al diritto alla sopravvivenza, il che le portava piuttosto a sostenere provvedimenti di controllo e regolazione dei prezzi, nonché misure di contrasto verso gli accaparratori – agenti a fini speculativi – di beni primari. Nutrendo inoltre un’ideale sociale piuttosto vicino a una sorta di felicità comune, propendevano per una proprietà limitata e avversavano le concentrazioni ‘industriali’ e agrarie. Caldeggiavano inoltre una società di piccoli produttori indipendenti. Infine, erano anche fautori della democrazia diretta. (Come avvenne, di fatto, nelle sezioni locali della comune di Parigi).
Ma, nei momenti di più grave crisi economica, la comune avversione per l’aristocrazia e i suoi privilegi le conduceva ad allinearsi alle rivendicazioni della borghesia, la quale doveva – dal suo canto – cercare di mantenerne il controllo e ricondurre la Rivoluzione nel corso moderato.
Questo ‘equilibrio’ trovò la sua più seria minaccia durante il periodo giacobino, che terminò poi conla ‘reazione termidoriana’. Durante la ‘dittatura Giacobina’, alla cui guida del Paese si trovò l’élite della ‘piccola e media’ borghesia, si raggiunse il culmine dell’alleanza democratica con le masse popolari e vi fu la sperimentazione della democrazia diretta. Fra il 1793 e il 1794 si ebbe un regime di compromesso fra gli interessi della borghesia e le aspirazioni popolari. L’ideale della gente comune era fatto di contadini proprietari, artigiani indipendenti e lavoratori protetti dai soprusi della classe ‘ricca’.
Furono implementate per la prima volta misure popolari e ‘ugualitarie’, come il controllo dei prezzi, l’educazione pubblica, leggi a favore dei poveri. Il 4 febbraio 1794 venne anche approvata l’abolizione della schiavitù nelle colonie.
Tutto ciò ebbe termine dopo la caduta di Robespierre, il 9 Termidoro (27 luglio 1794). Tuttavia, era ormai chiaro che libertà senza eguaglianza significa soltanto privilegi a vantaggio di pochi. Al termine dell’epopea rivoluzionaria, le classi popolari urbane si ritrovarono senza vantaggi tangibili. In sintonia con l’affermazione del nuovo ‘libero mercato’, il 14 giugno 1791 erano stati proibiti scioperi e unioni sindacali. Soltanto nel 1864 si avrà in Francia il diritto di sciopero, mentre il diritto di costituire sindacati dovrà attendere fino al 1884. La libertà economica favorì le concentrazioni del capitale e della ricchezza.
La fasce di popolazione che emersero in condizioni migliori dalla Rivoluzione furono, in fin dei conti, quelle dei ‘contadini’ già proprietari. Con la Rivoluzione francese la classe imprenditoriale si emancipò dalle vestigia feudali, le forze produttive si svilupparono e si formarono nuovi rapporti di produzione, con la polarizzazione delle classi.
Si crearono le condizioni per la transizione al capitalismo maturo, che si sviluppò poi nel corso del secolo successivo. Parimenti, l’apparato statale dell’Ancien Règime lasciò spazio a favore dello stato moderno, rispondente agli interessi della borghesia.
Riassumendo, si può dire che la Rivoluzione francese non è stata una mera lotta politica fra forze favorevoli alla monarchia assoluta e forze anelanti una repubblica democratica. La Rivoluzione ha rappresentato la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Il processo è stato diretto da un’alleanza fra un’èlite borghese e i ceti popolari, che ha avversato i nobili. Questa alleanza ha avuto successo nel 1789, ma poco dopo ha mostrato segni di tensione. A partire dall’estate del 1791 è emerso un conflitto fra i ceti borghesi e gli strati inferiori della popolazione. Ciò ha prodotto un ceto politico urbano – i sanculotti – che si è caratterizzato per una visione sociale e radicale della rivoluzione. La fase del ‘Terrore’ è stata quella durante la quale i Giacobini e i sanculotti hanno stabilito – anche se solo temporaneamente – la prima democrazia moderna nel più grande stato europeo. La Rivoluzione è stata, nella sua essenza, un conflitto di classe nel quale l’aristocrazia è stata abolita, il movimento popolare si è destato, la borghesia ha infine ottenuto il controllo dei gangli dello stato.
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Altre interpretazioni – segnatamente antimarxiste e revisioniste – hanno, fra l’altro, messo in risalto una sostanziale identità delle classi protagoniste dei fatti iniziati nel 1789. Cobban ha ritenuto che la borghesia rivoluzionaria possa essere considerata come un gruppo sociale di avidi funzionari, facente parte dell’Antico regime. La venalità delle cariche era una pratica tramite la quale, a partire dal primo Seicento, la monarchia aveva riempito i suoi forzieri cedendo le funzioni – divenute poi ereditarie – della giustizia e dell’amministrazione finanziaria e municipale.
Cobban ha poi avanzato il suggerimento che la natura della borghesia sia mutata durante la Rivoluzione. Rincarando la dose, lo studioso ha statuito non solo che la Rivoluzione non è stata opera di un capitalismo borghese in ascesa – bensì, appunto, di non capitalisti quali appunto, avvocati e funzionari –, ma che niente di simile al feudalesimo è stato rovesciato. Anzi, piuttosto che aprire l’economia alla libera intrapresa, la Rivoluzione ha ritardato l’espansione economica, favorendo uno stato di conservazione nel quale la categoria dei proprietari terrieri ha continuato a prevalere.
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Lucas ha sostenuto che non si può ravvisare un contrasto fra la borghesia emergente e la nobiltà immobile e in decadenza. Nella fase terminale dell’Ancien Règime, le due categorie sociali erano ormai immedesimate in una omogenea élite di potere. I privilegi tipicamente aristocratici, in precedenza monopolio nobiliare, erano ormai condivisi fra i due gruppi. Molti borghesi beneficiavano di sconti ed esenzioni fiscali e godevano di uno stile di vita aristocratico, agendo e comportandosi da ‘signori’. Borghesia e nobiltà si confondevano. Gli uffici pubblici, una volta esclusiva degli aristocratici, erano spesso tenuti da borghesi. Anche i diritti signorili potevano essere ottenuti da non nobili.
L’eruzione della rivolta del 1789 è spiegabile, allora, con la crisi politica del 1786-1788: i privilegiati borghesi furono spinti all’azione dal timore che la strada verso il loro pieno riconoscimento sociale stava per essere loro sbarrata. Le strutture sociali dell’Ancien Règime diventavano, cioè, più chiuse. La rivolta sarebbe stata dettata dalla paura dei borghesi di venire ‘chiusi fuori’. Ma è depistante concentrarsi sulla apparente semplicità della iato fra privilegiati e non privilegiati. In realtà, alla vigilia della Rivoluzione non sussisteva un tale diaframma. La classe commerciale del periodo non può essere riconosciuta quale ‘imprenditoria’.
Le famiglie commerciali non investivano le loro sostanze per ricavarne, in comparazione con la rendita, un ritorno più elevato. Collocavano le risorse in terreni, le impiegavano per l’acquisizione di uffici pubblici e cercavano di perseguire rendite finanziarie. Il loro obiettivo di lungo termine era la vita da ‘signori’ agiati e il relativo riconoscimento sociale. Soltanto nel corso del secolo seguente sarebbe affiorata la vera distinzione fra imprenditori e redditieri.
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Un altro filone di pensiero, che si fa risalire nientemeno che a Tocqueville, nota che la Rivoluzione non ha segnato un vero ribaltamento dell’Antico regime. L’abolizione del feudalesimo, delle gilde, dei privilegi nobiliari, della regolazione dell’economia, è stata la prosecuzione di tendenze già operanti sotto la monarchia assoluta. Eliminati i privilegi e le istituzioni aristocratiche, la via verso la cittadinanza individuale era spianata. Secondo Tocqueville, la nascita della democrazia moderna ha però dato adito alla crescita dell’onnipotente stato centralizzato.
In un’ottica di lungo periodo, Tocqueville ha visto i fatti rivoluzionari come uno stadio di irresistibile scalata della democrazia e della libertà. Ma queste due forze non erano necessariamente del tutto compatibili e, nel superamento del vecchio ordine, l’impeto rivoluzionario ha demolito molti dei presidi delle libertà che avrebbero impedito le tendenze autoritarie della monarchia, aprendo la via a Napoleone. Nessuna delle istituzioni messe in piedi dal 1789 è sopravvissuta a lungo. In seguito, un altro Bonaparte ha messo fine alle istituzioni nell’ambito delle quali la sua stessa carriera politica era maturata. Tocqueville, dunque, non ha trovato nella Rivoluzione un evento liberatorio. Le forze che ha sguinzagliato vanno contemplate piuttosto come impulsi protesi, in ultima analisi, alla dittatura. Ciò ha costituito per lui, reverente al cospetto delle idee liberali, motivo di profondo rimpianto.
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Furet si è chiesto come sia avvenuta tale trasformazione dello stato. La monarchia francese, mettendo in discussione il tradizionale ordine sociale, ha creato uno spazio vuoto. Questo spazio è stato riempito dall’idea di ‘popolo’. Si è messa in moto la società, che ha disarmato lo stato. La Rivoluzione è stata la nascita del flusso dell’ideologia e della politica democratica nel cui ambito lo stato centralizzato è stato rimodellato, con l’attribuzione a esso di più potere e autorità di quanto nel diciottesimo secolo fosse concepibile.
Per Furet, i fattori sociali – ossia gli interessi di classe derivanti dai rapporti di produzione – sono irrilevanti nella spiegazione dei problemi al fondo della Rivoluzione. Durante i fatti cruciali della Rivoluzione, le determinanti sociali sono state completamente ignorate dalla retorica rivoluzionaria essa stessa.
Furet ha inferito, da ciò, che l’essenza della questione ‘Rivoluzione’ risieda nelle idee, nella filosofia e nella politica, con l’esclusione di considerazioni di ordine sociale e con uno sguardo sdegnoso nei confronti del conflitto di classe quale causa del rivolgimento. La genuina Rivoluzione è stata quella del 1789-1791, dopodichè vi è stata una deviazione del corso, che è sfociata nel ‘Terrore’ per colpa imputabile alla monarchia e per via del controllo popolare di Parigi.
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Mignet e Thiers hanno fissato i contorni dell’approccio liberale alla Rivoluzione. Le sue cause vanno fatte risalire agli abusi dell’Ancien regìme. La borghesia, ormai arricchita, trovava intollerabile il tronfio ruolo della monarchia assoluta e della aristocrazia ereditaria. Gli esponenti della borghesia si sono così adoperati affinchè venisse instaurata una monarchia costituzionale, con istituzioni rappresentative e una panoplia di diritti civili e politici. La predilezione degli storici liberali è ricaduta su personaggi quali Mirabeau e, persino, su Danton. Personaggi che hanno cercato di stabilizzare il corso rivoluzionario. Il loro pungente disappunto è stato invece rivolto verso populisti come Marat e, ovviamente, verso il dittatore Robespierre e verso il terribile Sant Just. A partire dal 1791, infatti, vi era stata l’irruzione in scena delle masse popolari che, incuranti della stabilità e dell’ordine pubblico, avevano perturbato il percorso rivoluzionario facendolo deragliare in un biennio di violenza e di eccessi.
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Secondo William H. Sewell Jr, il pamphlet dell’abate Sieyès ‘Cosa è il terzo stato?’ aiuta a spiegare come lo scontro politico fra la corona e l’aristocrazia si è trasformato in uno scontro fra gli ordini privilegiati e i protagonisti del terzo stato, cioè fra la nobiltà parassitaria e la nazione francese.
È però un errore accettare, come è stato fatto anche dagli storici revisionisti, la definizione delle categorie sociali della Rivoluzione in modo ‘marxiano’, sebbene poi i revisionisti abbiano proteso i loro sforzi ermeneutici nella direzione di una spiegazione intellettuale del sommovimento rivoluzionario.
La Rivoluzione può venire meglio compresa attraverso il linguaggio e i concetti espressi dai rivoluzionari. La stessa pubblicazione di un pamphlet, come quello di Sieyès, rappresenta un attività sociale, comportante interessi e processi sociali. Così, si può rilevare che la pubblicazione di Sieyès contiene un’ideologia borghese, peraltro la più completa rispetto a quella delineata da altri rivoluzionari.
Gli aspetti sociali della Rivoluzione non vanno lasciati in esclusiva agli interpreti ‘marxisti’. Va adottato un metodo più ampio e alternativo di concezione del sociale. Il sociale non deve essere interamente ridotto all’intellettuale. Il sociale va definito in modo più largo, se non proprio onnicomprensivo. Non vi sono realtà sociali del tutto indipendenti da significati simbolici e viceversa.
La visione prospettata da Sieyès venne messa da parte durante gli anni della guerra e della, controrivoluzione. In quegli anni, il linguaggio dell’economia politica di Sieyès non riuscì a scaldare gli animi e il sentimento nazionale. Anche dopo il 1794, i deputati delle classi medie si mostrarono distanti rispetto alla retorica borghese di Sieyès.
Nel periodo iniziale della Rivoluzione, quello riferibile all’Assemblea nazionale, i protagonisti politici furono proclivi all’adozione del messaggio di Sieyès. Un periodo molto differente, se rapportato a quelli successivi. L’autore di ‘Cosa è il terzo stato?’ fece molto nell’indirizzare i fatti del 1789 nel senso che si realizzò con la costituzione dell’Assemblea nazionale e l’abolizione dei privilegi nobiliari. Egli vi riuscì grazie alla congiunzione di una retorica politica – che andava dritta alla conquista del potere da parte dei delegati del terzo stato –, con una retorica sociale – che eccitava il risentimento dei borghesi nei confronti degli aristocratici –.
Nel prosieguo degli eventi, però, la Rivoluzione cambiò direzione. Certo, non mancarono atti dei lavori dell’Assemblea che l’abate appoggiò (come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, la costituzione civile del clero, la riorganizzazione amministrativa della Francia) ma, a dispetto dell’influenza da egli esercitata, la cultura politica della Rivoluzione finì per evolvere in contenuti che, rispetto ai propri ideali, Sieyès trovò antitetici.
Nel suo scritto, Sieyès ha rappresentato la borghesia quale classe di produttori, le cui attività assicuravano la prosperità della nazione. È questa qualità a marcare la differenza con la nobiltà, raffigurata come classe parassitaria. E si tratta, altresì, di un elemento descrittivo che trova radicamento in una visione economico-politica della condizione umana. Il segmento più appassionato e attivo dei delegati del terzo stato la fece propria.
Negli anni posteriori però, il Paese è stato squassato dal conflitto militare, dal rovesciamento della monarchia, dalla guerra civile, finendo in un profondo discostamento culturale dall’ideale borghese promosso da Sieyès. Ciò è stato la conseguenza, in buona parte, dell’alleanza fra la fazione dei Giacobini e i sanculotti parigini, che ha portato alla campagna in favore della democrazia diretta e alla reintroduzione dei controlli nell’economia.
Nell’ambito della Convenzione, i deputati borghesi associati ai Giacobini si sono distaccati dalla visione dell’abate Sieyès anche sotto un altro aspetto. Essi, si facevano latori della nozione classica di virtù: dal 1792, il loro repubblicanesimo classico ha informato di sè la cultura politica del Paese. Gli oratori e gli scrittori della sinistra si atteggiavano a tribuni e invocavano Solone, Pericle, Bruto, Catone, i fratelli Gracchi, Cesare. Questo modello classico è poi durato oltre il ‘Terrore’ e perfino oltre la Repubblica tanto che, mentre rimpiazzava la Repubblica con l’Impero – le cui province erano gestite da prefetti –, Napoleone ha potuto presentarsi quale novello Cesare.
Durante il periodo 1789 – 1791, i rivoluzionari si erano invece dedicati a stabilire le condizioni legali consentanee all’impresa capitalistica. Vi era stata la promulgazione di riforme delle strutture costituzionali, amministrative, giudiziarie sotto l’insegna della ragione illuministica, senza ispirazione traibile dall’austera tradizione del paradigma classico.
Ma quando il processo rivoluzionario si è fatto aspro, quando cioè la stessa navigazione della Rivoluzione si è trovata nel mare procelloso – minacce esterne, congiure interne e tradimenti – il razionale linguaggio dell’economia politica non è stato più sufficiente. Tale linguaggio è risultato difettoso di un ingrediente: l’eroismo. L’idioma dell’economia politica è stato confacente a una contingenza di pace, quando le arti della produzione e del commercio si sono potute innestare in un clima di efficienza, interesse individuale, divisione razionale del lavoro. Non lo è stato in un momento di storia tragica, di cacofonico disordine, quando la narrazione collettiva ha fatto piuttosto appello alla virtù, alla solidarietà, al sacrificio eroico per il bene comune.
Il linguaggio che poneva al centro della scena la primazia della produzione è stato provvisoriamente accolto dagli strati più politicizzati della borghesia in quanto linguaggio ‘escludente’, da opporre all’aristocrazia, utile in un determinato momento di conflitto sociale.
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Anche il britannico Jones, pur evitando di disdegnare i lavori degli storici accostabili al Revionismo, non ha condiviso l’assunto secondo il quale vada rigettata la visione di una borghesia capitalista in ascesa, ostile agli ordini nobiliari privilegiati. La sua attenzione si è rivolta all’analisi dell’economia in Francia nel settecento. Jones ha accettato parte della storia secondo la quale l’élite di potere era formata sia di aristocratici che di individui comuni, la cui distinzione andava rinvenuta nell’occupazione anzichè nel lignaggio. Tuttavia, va evidenziato il fattore del mercato capitalitico, ormai operante. Alla vigilia del 1789, in seno al mercato erano attivi anche parte dei membri degli ordini privilegiati. Persino la compravendita degli uffici pubblici era divenuta un settore di impresa con un suo mercato. Le nuove e svariate forme di capitalismo hanno generato intensi antagonismi sociali. La borghesia può anche venire vista come una classe in parte confusa con la nobiltà – una classe non completamente ‘compiuta’, con la piena percezione del proprio potenziale – ma l’élite che conduceva il Paese è stata comunque influenzata da interessi ‘borghesi’, scaturenti dal capitalismo nascente. In tal senso, la Rivoluzione francese è stata autenticamente una rivoluzione borghese.
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Ciò che si può asserire, a compendio di queste conclusioni, è che la Rivoluzione iniziata il 14 luglio 1789 ha delineato il terreno nell’ambito del quale, durante il secolo successivo e oltre, le principali famiglie politiche – di destra nelle sue varie declinazioni, della borghesia liberale, della sinistra repubblicana – avrebbero agito per l’affermazione nel mondo contemporaneo delle rispettive visioni politiche e sociali. È per questo, probabilmente, che il significato da attribuire alla Rivoluzione ha, fin dal principio, diviso gli storici. Altrettanto continuerà a succedere in futuro, con un occhio costantemente rivolto all’uso politico che della storia si può fare.
Riferimenti
William Doyle The French Revolution
Albert Soboul Precise d’histoire de la Revolution francaise
Colin Lucas Nobles, bourgeois, and the origins of the French Revolution
Francois Furet The French Revolution revisited
Darius Von Guettner The French Revolution
Hugues Nancy, Adila Bennedjaï-Zou Révolution!
William H. Sewell, Jr A Rhetoric of Bourgeois Revolution: The Abbé Sieyes and “What Is
the Third Estate?”
Colin Jones Bourgeois revolution revivified