Quando si pensa ai classici film di Natale, almeno fra gli spettatori italiani, non si può non pensare a Una poltrona per due di John Landis, regista del film cult Blues Brothers (1980). Diventato famoso in poco tempo, grazie alla presenza di uno scoppiettante Eddie Murphy, all’apice della sua carriera, “Una poltrona per due” è diventata, pian piano, quella commedia da guardare con un occhio, mentre si consuma il cenone natalizio.
Le risate, le chiacchiere, le pietanze distribuite, hanno spinto gli spettatori a non guardare più il film con una certa attenzione ed un certo livello di criticità, facendo scivolare la sua reputazione nel parlato comune a semplice ‘film natalizio’.
John Landis ha, invece, il merito di aver diretto, sì, una commedia brillante e spassosa da rivedere con piacere, ma ha saputo legare sequenze comiche a tematiche di denuncia verso la borghesia ed il sistema economico capitalistico, condendolo con tematiche socio-filosofiche.
Il tutto inizia dai due attori protagonisti: Dan Aykroyd ed il sopracitato Murphy. Il primo interpreta un agente di cambi di beni di consumo, laureato ad Harvard, stimato dai suoi dirigenti, frequentatore del circolo tennistico più lussuoso della città, felicemente fidanzato con una bella e ricca donna, nonché servito e riverito dal suo maggiordomo.
Il secondo possiamo riassumerlo come il suo esatto opposto: un mendicante afroamericano, che non ha mai conosciuto i propri genitori, non ha potuto svolgere gli studi e quindi è costretto a mendicare fingendosi un mutilato.
I due finiscono al centro di una scommessa fra due dirigenti di borsa, per cui Louis (Aykroyd) lavora. La scommessa verte su una domanda filosofica: l’uomo è cattivo perché è la società a renderlo tale, oppure è una questione innata, di genetica? Per vedere quale delle due tesi sia la vincente, decidono di scambiare la vita di Louis con quella del mendicante Billy Ray (Murphy).
Improvvisamente, i due, si ritrovano in vite e contesti a loro estranei e superato un primo scetticismo verso la nuova situazione, iniziano ad adattarsi alla vita che sono costretti a svolgere. Lo scambio di ruoli è uno dei canovacci più antichi della commedia e funziona sempre.
L’equivoco è tanto efficace quanto le torte in faccia e gli sgambetti, ma il film riesce ad andare oltre e restituire alla commedia esilarante uno spessore tematico. Oltre la domanda filosofica, cui viene data la risposta cara a Rousseau: «L’uomo nasce buono ma è la società che lo corrompe.», si affiancano altre tematiche ben più taglienti e che si legano a questa principale.
Gli agenti di borsa rappresentano quella classe borghese cresciuta sotto il segno del capitalismo e, come tali, si comportano valutando gli uomini in base alla loro classe sociale, al loro fatturato. D’altronde è ciò che subiscono i due protagonisti, i quali imparano che tramite il loro nuovo status, entrano in contatto con un mondo che prima rifiutavano o gli era precluso. Emblematica la sequenza in cui Louis si risveglia nuovamente a casa sua ed apprende che la sua vita è stata rovinata per una scommessa da un dollaro. La sua vita, la sua dignità, per i suoi superiori era pari a quella di un dollaro.
«L’ultimo bastione del capitalismo rimasto sulla terra.» afferma Louis mentre entra a Wall Street. Il campo di battaglia caotico e nevrotico. Chi lo frequenta soffre di stress e malattie ad esso connesse, proprio come viene spiegato in un botta e risposta. Louis e Billy si preparano a fregare il mercato, mandare alla rovina i loro antagonisti e riscattarsi da ciò che hanno subito.
Sebbene possa sembrare che la morale ultima sia ancora una volta l’unione delle classi ad avere il potere di scardinare i corrotti burattinai borghesi, il vero e ironico finale, lascia la questione in sospeso e porta con se un’ombra forse ben più preoccupante. La catena gerarchica, classista, non viene interrotta. Billy e Louis si sono automaticamente fatti corrompere dallo stesso sistema che attanagliava i due agenti di borsa.
La sequenza finale non lascia dubbi: i due si godono i soldi su una spiaggia tropicale e consegnano un ordine al maggiordomo Coleman (Denholm Elliott), il quale, arricchitosi a sua volta, consegna l’ordine a un nuovo subordinato. La piramide sociale, la divisione delle classi non è stata cancellata, i protagonisti hanno preso il posto di chi era sopra di loro e sono entrati nel circuito chiuso capitalistico, pur rimanendo dei personaggi buoni.
Il problema, dunque, è di fondo. Quando tutto il mondo attorno sceglie di giocare con determinate regole, si cresce pensando che sia quello l’unico modello e pur tentando una piccola rivoluzione è facile farsi corrompere dal benessere oggettuale che il capitalismo consegna nelle mani dei pochi eletti che sanno come sfruttare le sue correnti.