È convinzione comune che Vincent van Gogh fosse pazzo; geniale certo, ma pazzo. Tre famosi passaggi della sua biografia sembrerebbero infatti dimostrarlo: il taglio dell’orecchio, il ricovero in manicomio, il suicidio.
Ma la sua arte, oltre ad entrare nel cuore delle persone, è arrivata sulle scrivanie di medici e scienziati, che l’hanno studiata a fondo per confutare la tesi comune della banale pazzia. Van Gogh è per questo, uno dei pazienti con il più ampio numero di diagnosi a distanza di 131 anni dalla sua scomparsa. Tante delle ipotesi formulate nel tempo sono poi state scartate fino a farne emergere solo alcune.
In uno studio del Politecnico di Torino dell’ottobre 2019, si sviluppa la tesi della “porfiria acuta intermittente”, una malattia metabolica genetica rara che affligge fisico e mente.
Nella fase iniziale dello studio, medici e psicologi hanno studiato le sue tele, analizzando l’intensità dei suoi tratti colmi di colore e frenesia. Ad esempio, in Campo di grano con volo di corvi, si osservano grosse pennellate e margini mal definiti, se comparati ai quadri antecedenti al 1886, anno della comparsa dei primi malesseri.
Campo di grano con volo di corvi, 1888
La spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta, 1882
I mangiatori di patate, 1885
Oggi, l’attacco di porfiria è descritto dalla letteratura medica, come una reazione scatenata dall’accumulo nell’organismo di sostanze tossiche per i neuroni ed aggravate da alcuni fattori come farmaci, diete ipocaloriche, alcool, fumo e droghe, molti dei quali sono stati dei fattori aggravanti della malattia in van Gogh. Le persone che soffrono di porfiria hanno sintomi latenti ma costanti nell’arco di tutta la vita. Eliminando i fattori che scatenano la patologia e controllando i livelli nel sangue delle molecole dannose per i neuroni, si evitano gli attacchi acuti, che possono essere anche fatali.
Un ulteriore studio dell’UMCG di Groningen, pubblicato nel novembre 2020 dall’International Journal of Bipolar Disorders, firmato da Willem A. Nolen, Erwin van Meekeren, Piet Voskuil e Willem van Tilburg, sorpassa la tesi del politecnico, affermando che l’artista soffrisse di disturbo bipolare dell’umore associato a disturbo borderline della personalità, aggravati dall’abuso abituale di alcool e da lunghi periodi di malnutrizione.
Per condurre lo studio, sono state somministrate delle interviste a tre storici dell’arte esperti di van Gogh e della sua copiosa corrispondenza ed è stato condotto un esame neuropsichiatrico per valutare se i sintomi potessero essere spiegati da una condizione medica; tutto ciò tenendo conto dell’impossibilità di analizzare il soggetto di persona. Inoltre, ai fini dello studio, sono state passate al setaccio le cartelle cliniche dei medici che ebbero in cura van Gogh, quali Paul Gachet, lo psichiatra immortalato dal pittore nel celebre ritratto del 1890, e Felix Rey, suo medico ad Arles nel 1888 che definì la sua prima crisi violenta, quella del famoso taglio dell’orecchio, come una “eccitazione transitoria”, attribuendone le cause al suo stile di vita e all’uso smodato di alcol, caffè e tabacco.
Ritratto di Paul Gachet, 1890
Autoritratto con l’orecchio bendato, 1889
Oltre ai disturbi bipolari e della personalità, van Gogh attraversò anche due fasi di delirio, probabilmente dovute all’astinenza da alcool, seguite da gravi episodi depressivi, di cui almeno uno con caratteristiche psicotiche, che lo portò al tentativo di suicidio e poi alla morte, il 29 luglio 1890.
In questo nuovo studio, i ricercatori hanno tentato di approfondire e specificare le analisi sulle psicopatologie di Vincent van Gogh, usando un metodo alternativo, ossia valutando tutti i sintomi mentali mai riportati da Van Gogh nelle sue lettere. Gli studiosi hanno quindi mirato ad esplorare tutte le possibili diagnosi, al fine di escludere le malattie più improbabili. Gli esperti hanno infatti escluso malattie citate in precedenza come la schizofrenia, la malattia di Meniere, la sifilide, la porfiria intermittente cronica e l’avvelenamento da monossido di carbonio.
Van Gogh stesso era consapevole dei suoi stati di instabilità, come si può evincere da alcuni suoi scritti: “A volte ho una terribile lucidità mentale, quando la natura è così bella di questi tempi e poi non sono più consapevole di me stesso e il dipinto mi viene in mente come se un sogno.”
Si può tranquillamente affermare che, quello che a noi oggi sembra un genio folle e sregolato, era in realtà una persona sofferente, vittima delle costrizioni del giudizio comune che però è stato in grado di tradurre il suo dolore in arte e bellezza.
Vincent lasciò che il suo ardore e la sua inquietudine guidassero la sua mano sulla tela, deformò la realtà guardandola attraverso la lente della sua agitazione interiore; egli non si fermava alle impressioni visive della realtà, ma ricercava in essa gli aspetti non percepibili attraverso i sensi.