Fine degli anni ‘30 del Duecento: agli estremi confini orientali dell’Europa fanno la loro comparsa cavalieri misteriosi, inafferrabili e dall’aspetto animalesco, ma corazzati, che suscitano un panico indescrivibile.
Non vengono dal nulla, bensì dal cuore dell’Asia – che all’epoca, per qualsivoglia europeo, è un pianeta sconosciuto. Tutto inizia alcuni decenni prima: un giovane capo mongolo di nome Temujin unifica sotto il suo comando le tribù, trasformandole in un esercito compatto capace di piegare le armate cinesi e di impossessarsi dei prosperi regni dell’Asia centrale. Passerà alla Storia come Genghis Khan, il più grande (e spietato) conquistatore di tutti i tempi. Fosse dei “nostri” (e non avesse gli occhi a mandorla) vedremmo in lui un altro Alessandro Magno, e persino qualcosa di più, ma i teatri delle sue battaglie sono troppo remoti, esotici, perché noi – e i nostri avi – gli si presti la dovuta attenzione.
Muore prematuramente, ma il suo impero non si disferà in un sospiro come è accaduto a quello macedone. Il figlio Ogodai prende il suo posto sul trono, ma ai mongoli (e ai discendenti del Khan universale) la sconfinata Asia non basta. Batu, uno dei nipoti di Temujin, guida la sua armata verso occidente, e si imbatte anzitutto nei Rus, padroni di un’immensa pianura. La loro potenza è recente, la discordia divide i capi – che riescono però a mettere in campo un grosso esercito che verrà disfatto sulle rive di un fiume. A uno a uno cadono i principali centri urbani: nel Cremlino (=fortezza) di Nizhny Novgorod, se la memoria non mi inganna, c’è un plastico raffigurante l’assedio della città a opera degli invasori “gialli”.
Annessa la Russia, e imposto un terribile tributo (non solo) di sangue ai suoi abitanti, le schiere di Batu Khan si dirigono verso l’Europa, che consta all’epoca dei territori carolingi più qualche propaggine slava. Fra i regni orientali il più saldo è la Polonia dei Piasti: chiamati dal re, architetti e carpentieri tedeschi ne stanno ricostruendo le città, sostituendo al legno la pietra. A est, però, le uniche difese naturali sono i fiumi (tra i quali il Bug, che segna oggi il confine con la Bielorussia) e i cavalleggeri asiatici li attraversano indisturbati. Re Boleslao raduna le sue truppe ben rodate, forse pensando di dover respingere una scorreria – non ha ancora capito chi ha di fronte.
Non è la prima volta che un’orda asiatica si abbatte sul continente: gli unni lo corsero in lungo e in largo in un periodo di crisi delle istituzioni, ma erano armati “alla buona” – e da allora, comunque, son passati otto secoli. Gli avari dalle lunghe trecce sono stati spazzati via da Carlo Magno, dopo Lechfeld (955 d.C.) gli ungari si sono “europeizzati”: la minaccia che arriva dalle pianure russe si configura quindi agli occhi dei contemporanei come un’assoluta e spaventosa novità, e le cronache dell’epoca riecheggiano inconsciamente quelle di ottocento anni prima, descrivendo gli invasori non come uomini, bensì come mostri dalle fattezze ributtanti – oggi diremmo: come alieni.
L’esercito del fiducioso Boleslao viene sbaragliato, perché stavolta gli extraeuropei possono contare su tattiche e persino tecnologie superiori. Nessuna parentela con gli unni armati di lance dalla punta d’osso, abilità equestre a parte: Genghis Khan ha forgiato una cavalleria di nuovo modello, che è al contempo leggera e pesante – e che nessuna schiera europea, montata o meno, è in grado di intercettare: ancora una volta il paragone con i fantomatici UFO, vanamente inseguiti dai caccia a reazione, appare calzante. Le armate continentali del tardo medioevo si assomigliano un po’ tutte: pullulano di coscritti male equipaggiati (e privi di protezioni), ma le azioni decisive sono affidate a un nucleo ristretto di cavalieri pesanti, capaci esclusivamente di caricare per sfondare le linee nemiche.
I mongoli, che combattono soltanto a cavallo, hanno altre caratteristiche. Anzitutto sono velocissimi e instancabili, anche perché ogni guerriero dispone di 2-3 cavalli di riserva. La loro abilità come arcieri è leggendaria, ma a essere di prim’ordine è anche lo strumento: l’arco composito mongolo è paragonabile per efficacia a quello che gli inglesi adopereranno un secolo dopo a Crecy, le sue frecce – affermano i testimoni – bucano qualsiasi armatura. I mongoli sono in grado di scoccarle anche mentre “fuggono” – non sono questi particolari, tuttavia, a sancire la loro superiorità sul campo.
A fare la differenza sono organizzazione e armamento: la prima ricorda quella romana – con suddivisione in decurie, centurie ecc. –, il secondo deve molto alle conoscenze acquisite in Cina, paese che fino a tutto il ‘400 sarà all’avanguardia nella scienza e nella tecnica, con secoli di vantaggio sugli europei.
I mobilissimi cavalieri mongoli non assomigliano per nulla agli antichi sciti e numidi: portano elmi di ferro o di acciaio e indossano corazze che possono essere di cuoio durissimo (e resistente ai proiettili) oppure a lamine di metallo. Invece dell’arco alcuni impugnano lunghe lance, mentre tutti, oltre allo scudo, dispongono per il combattimento ravvicinato di spada o ascia. Poi ci sono le “armi segrete”, che fanno la loro comparsa nella battaglia combattuta a Legnica (1241 d.C.) contro il duca di Slesia Enrico il Pio: cortine fumogene per occultare il movimento delle truppe e selve di razzi – un’arma diabolica, mai vista prima in Europa – per scompaginare le schiere avversarie.
Non è però la “lancia di fuoco” di ideazione cinese a decidere gli scontri campali, bensì il perfetto addestramento militare dei cavalieri di Batu Khan, ben guidati e incomparabilmente più agili e manovrieri dei “colleghi” europei. Questi ultimi caricano a testa bassa con effetti devastanti, se il nemico non fa in tempo a disimpegnarsi – ma i mongoli sono capaci di improvvisi dietrofront, e inseguirli è impresa vana.
La corsa degli attaccanti prima o poi si arresta: al contrario di loriche e bardature uomini e cavalli non sono fatti di ferro, e dopo una corsa a perdifiato (fra l’altro alla cieca, visto che gli elmi non consentono una buona visibilità) si arrendono alla stanchezza. A questo punto una pioggia di dardi è il prodromo della mattanza compiuta con lancia e spada: nessuno può sfuggire, perché i cacciatori hanno ormai circondato e immobilizzato la preda.
La più sensazionale vittoria mongola nella campagna del 1241 sarà ottenuta sulle rive del Tibisco, ove a essere annientata sarà l’armata ungherese del re Bela IV – discendente, ironia della sorte, da una stirpe di cavalleggeri delle steppe.
Chi potrà fermare i demoni vomitati dall’inferno che stanno mettendo a ferro e fuoco la metà orientale del continente? Sul trono imperiale siede un uomo di eccelso talento, che però è più un intellettuale che un soldato: si tratta di Federico II di Svevia, lo stupor mundi in rotta con il papa di Roma. Maggiormente interessato all’Italia (benché tedesco è nato a Jesi) che alla Germania, Federico appronta in fretta e furia un esercito mentre le avanguardie nemiche già si affacciano all’Adriatico.
Sarà il destino a risparmiare al grande sovrano svevo una prova verosimilmente insuperabile: la notizia della morte nella lontanissima Karakorum del Gran Khan Ogodai cambia i piani di Batu, che per far valere i diritti successori torna rapidissimo sui suoi passi, lasciando dietro di sé miseria e desolazione (oltre a qualche enclave tartara in terra polacca).
L’Europa è salva, più per merito del caso che dei suoi (comunque valorosi) combattenti: sarà l’avvento di armi da fuoco efficaci – due, tre secoli dopo – a ribaltare i rapporti di forza con i nomadi della steppa euroasiatica.