Le parole del ministro Cingolani, quello addetto alla Transizione ecologica che in realtà sembrerebbe nascondere un ritorno al passato nucleare, sulla possibilità concreta di un aumento delle tariffe dell’energia, che si ripercuoterebbe in un aumento delle bollette di gas e luce per famiglie e imprese anche del 30% e forse del 40%, hanno riaperto una questione apparentemente attinente solo alla sfera economica, mentre in realtà è tutta politica: si può lasciare il solo mercato, ridotto alla brutalità della sua dimensione concorrenziale, dove il motore primario che muove tutto risiede negli appetiti delle imprese, e nella voracità del capitale speculativo che deve riprodursi all’infinito, a governare i bisogni elementari e complessi delle società, la necessità di riscaldarsi, di produrre e consumare energia a fini produttivi? E questa questione nasconde la vera domanda di fondo che, come lo spettro marxiano, agita il sonno dei capitalisti globali: il mercato, così com’è, ci serve veramente? O è un modello di scambio diseguale del passato, di cui dovremmo liberarci in favore di più innovativi e giusti mezzi di soddisfacimento delle necessità di moderne società post-industriali?
Ovviamente sono domande che suscitano questioni enormemente complicate, che vanno al di là di questo modesto scritto, e che necessiterebbero in realtà di culture critiche dell’esistente e di prassi politiche di rottura che non si intravvedono all’orizzonte, se non per brandelli e lacerti sopravvissuti alla fine del ‘900, il secolo della Politica e della Rivoluzione.
E perché ritornano queste domande? La risposta è di una semplicità disarmante, ma mette lo stesso i brividi: gli aumenti, che per l’esattezza si rifletterebbero sulla componente “energia consumata”, se non allo stesso modo sul resto della struttura di costo della bolletta energetica, sarebbero a carico delle classi subalterne soprattutto, che ne pagherebbero i prevedibili costi sociali ed economici.
Insomma, a pagare sarebbero i soliti, la massa di lavoratori dipendenti e precari, sradicati dalle forme di lotta del Novecento politico, spossessati della possibilità di combattere concretamente questa ennesima ingiustizia che si sta per abbattere sulle loro teste. Siamo nel punto classico e nevralgico del conflitto Capitale-Lavoro, tra i pochi che detengono le leve del controllo dell’economia, e i molti che ne subiscono le scelte senza poter cambiare le cose.
Quanta potenzialità politica trasformativa ci sarebbe in questa questione, se solo ci fossero soggetti politici disposti a coglierla! Purtroppo, la penosa discussione di questi giorni ricalca i sentieri consueti del discorso del liberale caritatevole, che tante, troppe volte abbiamo dovuto ascoltare in questi decenni: la politica può fare ben poco, se non intervenire su alcune voci della bolletta energetica, tasse, imposte, costo degli incentivi alle rinnovabili, e così via su questa falsariga.
Peraltro, su quest’ultimo aspetto, è paradossale che un sistema economico predatorio ed estrattivo, che sta cercando di darsi una patina di ambientalismo con un po’ di vernice verde, stia cercando di mettere in discussione proprio l’energia pulita, insinuando che costi troppo produrla e distribuirla, e che in fondo potremmo farne a meno…Invece, la politica, lungi dall’essere quell’inutile orpello novecentesco come viene dipinta dai capitalisti interessati, sarebbe la prima linea di difesa delle classi subalterne, la vera forza propulsiva che può tutto, anche diluire gli aumenti dovuti alla speculazione delle borse nella fiscalità generale, per esempio, o costringere il sistema a prezzi calmierati per venire incontro ai bisogni popolari. Ma, certo, se il massimo della politica oggi è parlare di cannabis o di come morire, o della grande carica rivoluzionaria della Cortez che si imbratta il vestito ad una festa di super ricchi, siamo nel punto di massima inefficacia del discorso pubblico.
L’energia, il suo prezzo sempre più proibitivo per le classi popolari, è una questione della massima importanza politica, perché impatta sulla vita di tutti, anche di quelle imprese che oggi sono produttrici del discorso ideologico dominante, ed è necessario elaborare strumenti ed un pensiero della (vera) Transizione di Sistema che affrontino le sfide di un mondo a corto di futuro, che pensa la sua fine e quella dell’umanità, ma non quella del suo modo di produzione ingiusto e devastante per il pianeta. Una contraddizione che grida vendetta.