La Storia antica, quella romana in particolare, è straordinariamente ricca di gesta e personaggi “esemplari” che, tuttavia, lasciano piuttosto indifferente il lettore d’oggi – vuoi perché certe virtù sono passate di moda, vuoi perché il perbenismo di taluni protagonisti suona un tantino caricaturale.
Fosse nostro contemporaneo Marco Tullio Cicerone rivestirebbe senz’altro un ruolo di primo piano nell’odierno c.d. “governo dei migliori” (cioè degli ottimati) e nella forza politica neoliberista, ma rassicurante e presentabile che gli funge da sostegno: l’uomo era ondivago e senza principi, ma l’abilità nell’autopromuoversi, la versatilità e un talento oratorio-letterario fine a se stesso ne fecero comicamente, fra i posteri, un modello di rettitudine.
Catone il Censore, che con l’Arpinate condivideva prenomen e origini provinciali, è una figura più remota e sbiadita, ma non meno interessante. Vive oltre un secolo prima del retore che si spacciava per filosofo, e vive estremamente a lungo – ottantacinque anni – attraversando con passo sicuro un’epoca di trasformazione, quella in cui la Res publica devota al mos maiorum si avvia sottotraccia a diventare Impero. Sono i decenni della lotta mortale contro Cartagine: sul campo di battaglia Catone recita una parte da comprimario, ma è lui in Senato a premere con convinzione per l’annientamento della rivale (“Ceterum censeo Carthaginem delendam esse”: così si concludevano invariabilmente i suoi discorsi) anche dopo che il genio militare di Scipione e la superiorità degli eserciti romani l’hanno ridotta a un’impotente città stato. Quello del politico oramai anziano non è empito patriottico, ma schietto e consapevole imperialismo: qualsiasi ostacolo, anche potenziale, sul cammino dell’espansione va spietatamente abbattuto; allo stesso tempo Roma deve conservare la propria identità, soggiogando gli altri popoli anziché aprirsi alle influenze altrui. In feroce polemica col circolo degli Scipioni, Marco Porcio Catone si presenta come un romano d’altri tempi, ma non lo è affatto: padroneggiando filosofia e letteratura greche – e non avendo dubbi sulla superiorità culturale dell’Ellade – teme una contaminatio che rischia, a parer suo, di rammollire i quiriti in irresistibile ascesa. La durissima polemica con l’Africano, che si concluderà con l’autoesilio del vincitore di Annibale, è un conflitto di visioni prima ancora che di concreti interessi politici: Catone resterà per tutta la sua esistenza un provinciale, un homo oeconomicus che nel mondo esterno ricerca opportunità di crescita senza lasciarsi affascinare dalla sua varietà. Nell’immediato la linea politica del tuscolano si rivelerà vincente: a pochi anni dalla sua morte l’ecumene mediterraneo assisterà alla distruzione di Cartagine e all’assoggettamento all’Urbe delle monarchie ellenistiche – a medio-lungo termine, invece, si realizzerà il “somnium Scipionis” di una fusione culturale fra greci e romani, con questi ultimi però in veste di indiscussi dominatori.
Catone è un uomo colto, pratico, risoluto e vendicativo, che anche fisicamente spicca fra i nobili romani: è forte e ben piantato, ha occhi azzurri e capelli rossi. Secondo Alessandro Barbero i colori chiari costituivano fra i cives una disprezzata anomalia, ma le fonti attestano che le cose non stavano esattamente così (tutt’altro!): in ogni modo una chioma rossastra e le lentiggini di complemento attiravano pur sempre l’attenzione. Marco Porcio apprezzava le lodi, e in vita e post mortem ne ottenne parecchie, ma non tutti – neppure fra gli antichi – si lasciarono ingannare dalle sue esibizioni di integrità e parsimonia.
In un’antologia greca, ai tempi del ginnasio, mi imbattei in alcuni brani della Vita a lui dedicata da Plutarco, scrittore attendibile e poco incline all’agiografia. L’autore greco, vissuto fra il I e il II secolo d.C., si era documentato leggendo il De agricoltura composto proprio da Catone e non lesina al vecchio censore critiche solo in apparenza moralistiche. Smontando il mito del “frugale coltivatore” perennemente chino sui campi egli ci descrive un imprenditore di successo, che adotta tutte le più avanzate tecniche produttive – e che tratta relativamente bene i suoi schiavi, ma per calcolo e non per spirito umanitario: vede in loro, come più tardi Cicerone, dei semplici instrumenta vocalia da adoperare con cura e oculatezza, perché… non si rompano troppo presto. Plutarco, che pure vive in un mondo fondato sullo schiavismo, rimprovera a Catone l’assenza di pietas nei confronti in particolare dei più anziani, che quando non servivano più venivano semplicemente venduti alla spicciolata. L’esistenza di legami familiari e affettivi fra quegli infelici non costituiva una remora per lo spietato padrone. Scrive Plutarco, mostrandoci che anche duemila anni orsono esistevano intellettuali capaci di mettere a nudo senza reticenze le malefatte del sistema: “Non bisogna dunque far uso di esseri che hanno un’anima come se fossero delle scarpe o dei recipienti che una volta rotti o consumati per l’uso gettiamo via, ma bisogna che ognuno abitui se stesso, se non altro per l’esercizio di umanità, ad essere gentile e dolce nei loro confronti. Io neppure un bue lavoratore venderei quando fosse divenuto vecchio; tanto meno un uomo vecchio, facendogli mutare la terra in cui è cresciuto e la sua vita abituale col darlo in esilio per pochi spiccioli, un uomo che sarà inutile per chi lo compra, come lo è per chi lo vende?” – e con ancor più esplicita condanna: “Senonchè il cacciar via e vendere gli schiavi a causa della loro vecchiaia, dopo averli sfruttati come bestie da soma, io ritengo segno di un animo meschino, di un uomo che non crede all’esistenza di altri rapporti fra uomo e uomo al di fuori dell’utilità”.
A ben vedere lo storico greco sta tratteggiando un tipo umano che oggi ci è familiare, e riscuote il quasi unanime plauso della politica mainstream e dei media occidentali: quello dell’imprenditore dinamico che, attento alla bussola del profitto, licenzia e delocalizza da un giorno all’altro, gettando decine o centinaia di famiglie sul lastrico – e questo senza porsi alcuno scrupolo, poiché al pari del suo antesignano “non crede all’esistenza di altri rapporti fra uomo e uomo al di fuori dell’utilità” e considera operai e dipendenti nient’altro che mezzi di produzione, risorse umane.
Spogliato della sua toga di conservatore Catone il Censore disvela un animo sorprendentemente moderno, da manager teso solamente al guadagno: venti secoli fa perlomeno – e in una società che giudichiamo barbara e crudele rispetto alla nostra, così prodiga di diritti civili – c’era chi, pur inserito nell’élite, aveva l’onestà intellettuale di bollare una simile condotta affaristica come “meschina” e di stimarla indegna di un essere umano. Sorprende infine la sensibilità mostrata da Plutarco nei confronti di uomini “invisibili” e persino degli animali domestici, che sembra preannunciare – più che le sgangherate concezioni degli animalisti contemporanei – l’affermazione di una dottrina, quella cristiana, incentrata dapprincipio sulla compassione e su un’altruismo evidentemente non estraneo alle componenti più illuminate di un’umanità che attendeva, ieri al pari di oggi, di essere “redenta”.