L’impensabile è accaduto: alle 6 di una giornata che rimarrà nella storia, il 24 febbraio 2022, la Russia ha dato il via ad una “operazione militare speciale”, per usare le parole di Putin, novello Zar di tutte le Russie ansioso di ricostruire una accettabile sfera d’influenza che protegga il suo paese: in termini espliciti ha avviato l’invasione dell’Ucraina. La guerra torna prepotentemente nello scenario europeo dopo il travaglio jugoslavo del 1991, primo conflitto interetnico nel cuore d’Europa dopo il 1945, in realtà una serie di guerre tra le neonate repubbliche post-titine che tra alterne vicende sarebbero andate avanti fino al 2001, su tutte ricordiamo il conflitto nel Kosovo sotto la regia della Nato e degli Usa.
Ma questa volta è diverso, profondamente differente è il contesto e la magnitudine delle forze in campo e degli interessi in gioco: se nel caso della ex-jugoslavia l’impatto strategico dei conflitti era molto limitato, nessuno poteva impensierire gli Usa e l’Urss sarebbe tramontata di lì a poco, e lo stesso si può dire dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia, della Siria, intesi come guerre locali per procura nelle quali Usa e Russia si guardavano da lontano, oggi il contrasto pone direttamente faccia a faccia gli Stati Uniti e la Russia, in una escalation dalle implicazioni planetarie potenzialmente catastrofiche. Nel mezzo l’Ucraina, che fino a ieri con sguardo fiero lanciava il guanto di sfida a Putin, rivendicando l’adesione all’Ue e alla Nato, sembra segnata nel suo destino di paese troppo debole per poter resistere alle forze russe, un vaso di coccio contro il gigante eurasiatico.
Certo, un conto è penetrare in una nazione colpendo e occupando punti nevralgici, un conto è occuparla militarmente, non dimentichiamo che l’Ucraina è grande il doppio dell’Italia e ha 42 milioni di abitanti, non parliamo di uno staterello di poco conto, per cui anche Putin potrebbe, se esagera, rimanere impantanato in una riedizione in salsa europea del Vietnam, con conseguenze imprevedibili per lui. Diciamolo subito: la decisione di invadere uno stato sovrano, per quanto complesso e articolato al suo interno, con ampie fessurazioni nella sua parte orientale, in corrispondenza delle autoproclamate Repubbliche di Doneck e Lugansk a maggioranza russofona, è un atto molto grave dalle conseguenze imprevedibili, se il conflitto dovesse allargarsi, che va contro il diritto all’autodeterminazione dei popoli e al più elementare buon senso, ma è avvenuto in un contesto di crescente pressione della Nato nei confronti della Russia post-sovietica, e questo da subito dopo la liquefazione dell’Urss.
Nel 1999, tradendo impegni presi precedentemente con Gorbaciov, anche se c’era ancora l’Urss, la Nato ingloba Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria; nel 2004 i paesi baltici, più Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia. Poi, dal 2009 al 2020, Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Da 16 stati a 30, 21 dei 27 paesi dell’Unione europea sono nella Nato che, da alleanza difensiva scaturita dal blocco occidentale che uscì dal secondo conflitto mondiale, e nel 1955 sarebbe nato il Patto di Varsavia, si è tramutata in una agenzia bellica multinazionale a guida americana in grado di intervenire in ogni parte del mondo, il volto guerrafondaio del mondo unipolare che ha segnato il pianeta dal 1989.
Da oggi quel mondo non esiste più, un attore geopolitico di prima grandezza, voglioso di recuperare la propria aura imperiale, ha deciso di sfidare l’Occidente come non avveniva dai tempi della Guerra Fredda e delle crisi dei missili a Cuba del 1962, con l’invasione dell’Ucraina Putin dice al mondo che la Russia non è più disposta ad accettare che la pressione continua della Nato, che ha progressivamente inglobato pezzi di mondo ex sovietico, come abbiamo visto, arrivi fino alla minaccia diretta al cuore dello smisurato stato euroasiatico, perché di questo si tratta, a meno di non pensare alla Nato come ad una tranquilla organizzazione non governativa di filantropi. Questo è il drammatico punto politico del dramma che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
E questo contenuto drammatico, politico e umanitario, degli avvenimenti di queste ore rischia di essere occultato dal sistema dei media, che presentano solo un lato del problema, mai si arrischiano a dipingere il quadro della situazione nella sua complessità e articolazione, fatto questo deleterio perché nelle relazioni internazionali, che sono relazioni tra potenze, piccole, medie e grandi, la griglia interpretativa “buoni” vs “cattivi”, bravi democratici occidentali contro cattivi slavi barbari, è sbagliata e fuorviante. Pertanto, il cuore politico dell’attuale conflitto è questo: il paradigma unipolare di un mondo dominato dalla iperpotenza americana è fallito, senza recuperare una visione e una prassi multipolare dei rapporti tra potenze il pianeta è in grave pericolo, stretto tra un militarismo mai domo, una crisi ambientale che sta condizionando le scelte economiche e il panorama sociale, e un modello di sviluppo, quello capitalistico predatorio-estrattivo, che sta mettendo in pericolo il mondo intero.
Penso sia possibile anche dal caos di queste concitate ore trarre questo insegnamento, diciamo così, politico, anche se dubito possa essere colto dagli europei e dagli italiani che, nel giro di poche ore, dalle discussioni sul Covid e sulla ripresa economica, sono passati a mettersi l’elmetto a loro insaputa, quasi con nonchalance. Manca un vero movimento per la pace, manca un soggetto politico realmente socialista e critico degli assetti di potere vigenti, manca tutto, ma non ci si può esimere dal continuare a pensare in maniera critica per non cedere allo spirito del tempo.