Allora, compagne/i e amiche/i, cerchiamo di fare un ragionamento politico che comporta un minimo impegno intellettuale, invece di scagliarci contro questo e quello.

Esistono dei poteri pubblici, a diversi livelli, che dispongono di ampie risorse per dare un corso ai processi.  Non ci dovrebbero interessare i personaggi che li incarnano, ché quelli sono sempre sostituibili. Ci dovrebbero interessare le strutture di decisione, le quali comunicano attraverso atti ufficiali.

Ora, le decisioni prese dall’inizio dell’epidemia non sono state univoche, così come non c’è stato un piano organizzato per affrontare l’emergenza. Di fronte all’impatto dell’evento epidemico e stante la ridotta possibilità – tecnica prima ancora che politica – di dotare il paese di risorse aggiuntive (posti letto, personale, macchinari ecc.), si è scelto, questa primavera, la strada della chiusura totale, la “via cinese”, per dire così, senza però né le forme di controllo sociale né le forme di garanzia che la Cina si è data.

Evidentemente, questo tipo di scelta non poteva che avere il fiato corto. Si è guadagnato tempo, si dirà, nell’assenza pressoché totale dei poteri europei ai quali il nostro paese, volente o nolente, ha trasferito alcuni dei propri poteri statali.

In attesa della UE, che non c’è stata e non ci sarà, ancora una volta il paese ha dovuto gestire autonomamente la crisi.

A quel punto, già a primavera sarebbero occorse risorse straordinarie, e poi nuovamente durante l’estate, perché – come più di qualche economista di matrice keynesiana aveva fatto notare in tempi non sospetti, cioè già a marzo – la crisi sarebbe stata dal lato della domanda con il pericolo che, con la riduzione drastica o la chiusura delle attività produttive, si aggiungesse anche una crisi dell’offerta, in regime di deflazione dovuto agli effetti sistemici della moneta unica e dopo dieci anni di rigide politiche di austerità che hanno disastrato il paese.

Che cosa avrebbero dovuto fare i poteri pubblici, dunque, oltre alla salvaguardia della salute? Cercare di mettere in sicurezza il prima possibile fasce di popolazione che già da tempo sono sotto la soglia di povertà – per esempio con assunzioni straordinarie nel pubblico impiego, con la internalizzazione rapida di servizi pubblici appaltati con la logica del massimo ribasso, riattivare i corsi di specialità nei dipartimenti di medicina demenzialmente chiusi nell’ottica della “razionalizzazione” dell’università, ecc. – predisporre presidi sanitari territoriali per le categorie più a rischio contagio, ridisegnare il modello della sanità pubblica e finanziare la riforma ecc.

Di cose da fare, efficaci, ce ne sarebbero state a non finire. E soprattutto, si sarebbe potuto proporre un contratto con la cittadinanza: l’intervento dei poteri pubblici, con tutte le misure di salvaguardia della comunità nazionale che sono necessarie, in cambio dell’attivazione dei cittadini in nome della partecipazione democratica. Si sarebbero potuti (ri)chiamare gli italiani alla vita politica, perché – vivaddio – in questo paese ci sono ancora moltissime persone che si impegnano in attività di rilievo sociale.

Eppure, nulla o quasi di questo è stato fatto, perché ciò avrebbe significato restituire poteri reali alle comunità e rovesciare la logica dello Stato-azienda-con-il-bilancio-in-pareggio che ossessiona ancora – nonostante tutto quello che sta accadendo – le nostre classi dirigenti.

Nulla o quasi è stato fatto e nell’assenza d’indirizzo dei poteri pubblici, altri poteri hanno cercato e stanno cercando di approfittare della situazione che si è creata. Nel vuoto può prendere forma qualsiasi cosa, e anche in tempi insospettabilmente rapidi.

Gli episodi di intolleranza rispetto alle decisioni recenti del governo e delle autorità locali si spiegano in termini di reazione a questa perdurante vacanza dei poteri pubblici rispetto alle situazioni di sofferenza collettiva, in più di qualche situazione ormai endemica, alle soluzioni che vanno sempre e solo in una direzione, al tempo perso inutilmente, allo scarico economico, morale e sociale dei costi della crisi su chi è meno attrezzato, o salvaguardato, per affrontarla, ecc.

Perché questo si sta facendo: intervenire selettivamente addossando il costo dell’inerzia, per parziale che sia, sugli strati già in difficoltà, su chi ha poca o nulla protezione, su chi non è garantito a causa della sua collocazione nella geografia dei privilegi sociali. Non dei diritti. Perché i diritti sociali li abbiamo ceduti quasi tutti e quel che poco che ci è rimasto – ecco il nuovo mantra di chi trae e trarrà vantaggio dalla crisi – non può essere conservato interamente.

Questo ci viene detto: di quel poco che è rimasto dovete imparare a rinunciare ancora a qualcosa.

E’ la musica da organetto della “durezza del vivere” che pressoché l’interezza dei media ci sta suonando da anni, come un jukebox che di tanto in tanto cambia il motivetto, il cui contenuto resta identico a se stesso.

Fino a dieci anni fa è stata la menzogna di una “open society” con opportunità per tutti, a patto che si rinunciasse al diritto allo studio e al lavoro, al diritto a spostarsi con mezzi pubblici economici ed efficienti, al diritto ad avere dei servizi pubblici essenziali a costi accessibili (la casa, l’acqua, l’energia);  dopo la crisi del 2007-2008 è stata la menzogna della “scarsità delle risorse”, per cui si doveva rinunciare a un salario decente e alla sanità pubblica, e quel poco o tanto di pubblico bisognava fare presto ad alienarlo.

Ora ci viene detto che lavoro, sanità, studio, cultura, mobilità sono reciprocamente incompatibili e che dobbiamo sbrigarci a rinunciare a quelle garanzie minime per le quali uno Stato democratico e civile dovrebbe operare per consentire una vita dignitosa. Altrimenti ci ammaleremo.

Come se non fossimo già ammalati, intossicati, avvelenati quotidianamente, nelle teste prima ancora che nei corpi.

Il paese intero è ammalato, e non parlo dell’economia né della pandemia. Parlo della distruzione sistematica della speranza che è stata condotta da generazioni di classi dirigenti imbarazzanti e dai loro servi ubbidienti. Sono lustri che assisto a un’opera di distruzione della società che forse qualcuno, un giorno, sarà in grado di raccontare dal cumulo di macerie.

Sotto un livello minimo ci sono solo la lotta per la sopravvivenza e l’imbarbarimento. Abbiamo già abbondantemente percorso lunghi tratti di questo percorso verso il limite e i segni ci sono tutti.

Segnalatori d’incendio ce ne sono stati. Ora serve altro.

Se questo Stato non è più (abbastanza, sufficientemente, parzialmente…) democratico, è venuto il tempo che lo sia.