Negli anni trenta del VI° secolo d.C. l’imperatore Giustiniano, dopo aver riportato l’ordine in una Bisanzio stremata dalla lotta fra le fazioni e aver riordinato il diritto, concepisce un’impresa non meno ambiziosa della stesura del Digesto: la riconquista dei territori d’occidente. Sarà il primo e ultimo tentativo di ricomporre l’unità dell’impero romano e incontrerà un effimero successo: il generale Belisario scaccia i Vandali dall’Africa e dalla Storia, indi passa in Italia e riduce all’impotenza i bellicosi Ostrogoti.
Costoro, originari della Svezia meridionale, governavano la penisola da circa mezzo secolo e in questo periodo si erano “inciviliti”, ma sul campo di battaglia si dimostrano incapaci di competere con un moderno esercito organizzato qual è quello bizantino, tra l’altro magistralmente condotto.
Intrighi di palazzo suscitano l’ostilità del monarca costantinopolitano nei confronti del vincitore, che precipita in disgrazia: parte delle truppe viene rimpatriata, ai Goti – rimasti padroni del settentrione – si offre l’opportunità di una rivincita. Dopo un periodo di torbidi i guerrieri scelgono come re (541 d.C.) un comandante venticinquenne che, da governatore di Treviso, ha già esibito non comuni doti militari: il suo nome è Baduila, ma tutti lo conosceranno come Totila, che in lingua gotica significa “immortale”. Non avrebbero potuto eleggere un candidato migliore: nei suoi undici anni di regno Totila si rivelerà il più brillante, carismatico e affascinante sovrano dell’alto medioevo italiano.
Poco sappiamo del suo aspetto fisico: di certo aveva gli occhi chiari e le rozze monete dell’epoca lo raffigurano baffuto; appartengono forse alla fantasia del pittore cinquecentesco Francesco Salviati i capelli e la barba castano-rossicci e la maestà del volto, ma dubito facessero difetto al “modello” l’acutezza e l’intensità dello sguardo che animano il dipinto. Baduila è un uomo d’armi, ma anche un membro dell’alta aristocrazia ostrogota: senz’altro capace di esprimersi in un latino corretto, era probabilmente una persona colta – lo desumiamo dalle ben attestate doti oratorie e dalla conclamata abilità nell’uso degli stratagemmi militari derivante, io credo, dalla familiarità con manuali e fonti letterarie.
Approfittando dell’inerzia bizantina il nuovo re conduce una sorta di Blitzkrieg nell’Italia centromeridionale, mostrando perizia di assediante e ricorrendo sovente all’astuzia: Capua e Napoli cadono rapidamente nelle sue mani, la stessa Roma capitolerà due volte dinanzi alle schiere gote. Ciò che però sorprende (noi, ma anzitutto un suo contemporaneo: il cronista Procopio di Cesarea, che spende parole d’elogio) è il trattamento che il sovrano riserva ai vinti: in un’epoca ferocissima egli palesa una magnanimità che spesso si colora di sollecita benevolenza, come quando dopo la presa della città ordina di sfamare i napoletani fiaccati dagli stenti e da una fame che in quegli anni è comunque generalizzata.
La colpa è solo in parte dei bizantini, comportatisi più da predoni che da liberatori: una serie di grandi esplosioni vulcaniche verificatesi fra la terza e la quarta decade del secolo causa quelli che saranno poi chiamati “gli anni senza estate” (fenomeni analoghi interesseranno l’Europa all’inizio del trecento e dell’ottocento), oscurando il sole per lunghissimi periodi e abbattendo le temperature con tremende conseguenze sui raccolti. Il già citato Procopio descrive scene apocalittiche: contadini scheletrici ridottisi a brucare l’erba, città abbandonate, persino episodi di cannibalismo.
Pare che Totila avesse compreso l’insostenibilità della situazione e progettasse una grande riforma agraria che contemplava lo smembramento dei latifondi, l’affrancamento dei servi e un equo riparto delle terre coltivabili: per quanto noi si abbia un’idea abbastanza vaga di un programma che le circostanze impedirono fosse tradotto in pratica il suo stesso concepimento testimonia la stupefacente lungimiranza del giovane re e consente di meglio intendere le ragioni di una “clemenza” che non può essere derubricata a espressione di bontà d’animo ovvero, all’opposto, a cinico calcolo politico.
Baduila rex guardava lontano, oltre l’orizzonte di una guerra senza quartiere: come il primo Teodorico egli si proponeva di costruire una solida alleanza tra l’elemento germanico e quello latino cattivandosi la simpatia e la fedeltà degli italici. La cosa non gli riuscì per la caparbia opposizione della nobiltà romana legata a Costantinopoli e per l’intransigenza di Giustiniano, che sprezzò ogni proposta di pace e alla fine trovò un nuovo condottiero nell’ottantenne eunuco Narsete.
Malgrado l’inventiva di Totila – che mise in mare una flotta per “punzecchiare” le coste greche e cercò, pur essendo ariano, una qualche forma di sostegno da parte di san Benedetto, il più autorevole e venerato fra i religiosi del tempo – i rapporti di forza erano favorevoli all’Impero, che riuscì a equipaggiare un grande esercito infittito di mercenari barbari e lanciò con esso una violenta controffensiva in territorio italiano.
Al principio dell’estate del 552 d.C. i due schieramenti si fronteggiano nelle vicinanze della località attualmente denominata Gualdo Tadino, nella verdeggiante Umbria. Narsete dispone del doppio delle truppe rispetto al nemico: Totila lo sa e prende tempo, per dar modo al fedele Teia di sopraggiungere con poche migliaia di cavalieri di rinforzo.
Un ammirato Procopio dà conto con prosa vivace degli espedienti escogitati dal goto per disorientare gli avversari e abbatterne il morale: lo storico descrive nel dettaglio la “danza di guerra” inscenata da Totila rivestito d’oro e di porpora in groppa al suo destriero (non è un rito propiziatorio, ma un’impressionante prova di abilità guerresca) e il pasto fatto approntare per i soldati nell’imminenza dello scontro da chi ha evidentemente appreso la lezione degli antichi strateghi – lo scopo non è tuttavia soltanto quello di rifocillare i seguaci in vista della pugna.
Il duce goto ostenta insomma una sicurezza in se stesso che sarebbe ingenuo ad avere, ed in effetti non ha: prova a sorprendere i bizantini con una decisa e subitanea carica frontale che si infrangerà contro le punte di migliaia e migliaia di frecce. Ha giocato il tutto per tutto e ha perso.
La sconfitta dei Goti a Tagina è irrimediabile, senza appello: Totila, volto in fuga coi suoi, viene ferito da un dardo e, assistito da una manciata di compagni, spira di lì a poco in una capanna. Per il regno gotico in Italia è la fine, nonostante le prodezze di Teia gli regalino un brevissimo post factum. Ironia della sorte saranno gli irsuti Longobardi, che infoltiscono le schiere “romane” (e sono assai più barbari degli Ostrogoti), a ereditare presto l’Italia, mentre intorno alla memoria di Baduila/Totila cresce col tempo una leggenda nera, forse addebitabile alla fede ariana del principe.
Il totalitarismo cristiano (e poi cattolico) equipara le “eresie” alla miscredenza, ed è emblematico che nel Canto diciassettesimo della Gerusalemme Liberata il sensibile ma zelante Tasso scriva “Trafitto di saetta il destro ciglio, / segue l’estense Epaminonda appresso; / e par lieto morir, poscia che ‘l crudo / Totila è vinto e salvo il caro scudo”. Tralasciamo l’imbarazzante encomio alla famiglia del committente (le ottave dalla 90 alla 97 sono ben più impudiche!) per concentrarci sull’elemento centrale: nel ‘500 l’equiparazione tra “idolatri” è oramai un dato acquisito – perdura però ancora la fama del re dei Goti, che sbiadirà nei secoli successivi.
Vero erede della virtus romana, oltre che maestro di psyops, Totila si staglia nella nostra storia come un meritevole della vittoria, il cui destino è essere vinto (così E. Donadoni a proposito di Solimano, eroe “negativo” della Liberata).