Credo si possa affermare con un buon grado di approssimazione che il governo Draghi rappresenti un particolare modo nel quale si articola il modello neoliberale vigente, una modalità affatto peculiare, che solo nella nostra travagliata penisola avrebbe potuto trovare i natali e dispiegare i suoi effetti, ovvero: per l’ennesima volta il suolo italico è il teatro di esperimenti politici e istituzionali inediti, che, nel bene e nel male, hanno “fatto scuola”, e hanno fatto di noi un laboratorio politico di portata mondiale.
Dai Comuni medievali al Risorgimento, dal diritto romano al fascismo, da Machiavelli alla strana coabitazione Dc-Pci per un quarantennio, dalla presenza del cuore della cristianità alla televisizzazione di un intero paese, da Moro a Berlusconi, nella penisola italiana sono accaduti fatti politici, sono esplosi fenomeni ideologico-culturali, hanno avuto corso stili retorici e mode del pensiero che hanno avuto una importanza capitale per la storia della politica mondiale, l’ultimo, in ordine di tempo, è la strana creatura, l’ircocervo del nostro già ricco Bestiario politico, che va sotto il nome di governo tecnico.
Un governo che non potrebbe esistere, in verità, non esistono in natura governi che possano produrre meri effetti tecnici nella realtà fattuale delle società umane, né governi guidati da un puro assemblaggio di tecnicalità “neutre”, anzi, semmai ogni governo da sempre ha riverberato sulle comunità di riferimento effetti politici, i governi a tutte le latitudini sono sempre politici. Se è così, allora, perché in Italia con Draghi siamo al quarto, addirittura, “governo tecnico”, dopo quelli di Ciampi, Dini e Monti? E, fatto rimarchevole, osannato in una maniera che definire bulgara è un pallido eufemismo?
A nostro modesto parere per una peculiare evoluzione del nostro paese dopo la caduta del Muro, che ha seguito una traiettoria diversa rispetto agli altri, o, meglio, ha reagito in maniera differente in confronto ai nostri vicini alla pervasività del paradigma neoliberale, uscito vincitore dalla guerra fredda, e a quella particolare declinazione del modello liberista che è il processo di integrazione europea.
Progressivamente esauritosi il filtro dei corpi intermedi, partiti, sindacati, movimenti, associazioni, ridotta la contesa politica a pura amministrazione dell’esistente deideologizzato, estirpata l’eresia comunista in tutte le sue varianti, da quella “ufficiale” a quelle più estreme dell’extraparlamentarismo, silenziato il confronto fra opzioni politiche diverse e reciprocamente alternative, in breve, espunta ogni velleità/volontà di costruire un modello sociale ed economico “altro”, fatto fuori l’anticapitalismo, l’unica religione civile consentita, l’unico collante politico e ideologico lecito e legittimante, è consistito nell’omaggio deferente al progetto europeo, alla sua moneta e ai suoi sacerdoti.
La più grande subordinazione politica e culturale di un intero popolo mai vista dai tempi dei totalitarismo novecenteschi, solo che questa presenta i caratteri di un totalitarismo liberale. E di mercato. Poteva l’Italia subire questo dominio, pieno e incontrollato, per citare Moro e la geniale riappropriazione di Perrone riferita al De Gasperi “americano”, in maniera aperta, per via della pressione delle nazioni a noi alleate?
No, ovviamente, noi abbiamo così interiorizzato i dogmi dell’europeismo, abbiamo così tanto introiettato il cuore pulsante dell’ideologia dello “spread” che non abbiamo avuto bisogno di finire come la Grecia, che ha subito l’ “occupazione” finanziaria ed economica dei creditori, no, noi non abbiamo sopportato l’onta della Troika. Noi la Troika ce la siamo fatta in casa. Prima che ce la mandassero l’abbiamo fatta da soli.
Da qui il governo tecnico, anzi la sequela in quasi 30 anni di ben quattro governi tecnici. Solo così si è potuto far accettare al popolo italiano, e quindi al cittadino-contribuente-elettore, una massa ingente di provvedimenti che lo hanno impoverito economicamente, depauperato politicamente, avvizzito democraticamente e, in definitiva, ridotto sul lastrico della postdemocrazia.
Il tutto, sembrerà paradossale, con il suo attivo consenso, sia nelle urne che nella più diffusa opinione, e con Draghi questo processo ha raggiunto vette mai toccate prima, come se un redivivo Minculpop imbeccasse giornali e televisioni, web e intellettuali con la forza persuasiva del suo antenato…
Addirittura, con Draghi si è raggiunto un punto di caduta mai visto prima: l’uomo non ha bisogno nemmeno di parlare, lui “fa”. Almeno Monti era dotato di loquela, Dini perfino in tv lo si vedeva, Ciampi aveva stoffa politica e culturale, il banchiere centrale invece non ha necessità di instaurare una comunicazione politica con i suoi governati, lui comunica i suoi atti come se fosse all’Eurotower. Al massimo un briefing ogni tanto con la stampa. A questo siamo oggi, in Italia, nel 2021.
Ma la domanda veramente pregnante dal punto di vista politico non riguarda l’oggi, ma il futuro: e dopo?