Pur fra incertezze ed esitazioni, un certo condizionamento da parte dei ceti industriali e del capitalismo agrario, il patto che Franklin Roosevelt stipulò con la nazione fece perno su un allargamento della base democratica del paese. Lavoratori dell’industria e sindacati, agricoltori, intellettuali progressisti (liberals) e associazioni di immigrati entrarono a far parte del blocco sociale che consentì ben quattro elezioni del presidente più ricordato del ‘900.
Il lascito di maggiore respiro di Roosevelt agli Stati Uniti fu forse la costituzione dello ‘Stato sociale’. (Le origini dello Stato sociale sono europee, esperimenti e forme di assistenza erano già in funzione in Germania e in Gran Bretagna). Seppure di scala piuttosto modesta e non propriamente rivoluzionario in alcuni istituti – come nel caso delle pensioni, che non erano finanziate con un prelievo dal bilancio federale ma da contribuzioni dei lavoratori – il Social security act collezionò un profluvio di attacchi da parte delle associazioni imprenditoriali. Ma lo stato assistenziale sarebbe comunque entrato in pianta stabile a far parte della società capitalistica contemporanea più influente al mondo.
Per effetto della Grande depressione, la tradizionale impostazione dello ‘stato minimo’ risultò compromessa. Fu ampliata la consistenza burocratica dei ministeri e furono create numerose nuove agenzie governative. L’allocazione dei poteri ne uscì profondamente modificata, con una rilevante avocazione di essi al livello centrale.
Per affrontare la depressione il bilancio federale ne risultò gonfiato. Il disavanzo rapportato al Pil fu dell’1,5% nel 1934, ma arrivò in seguito a toccare il 6%. Fra il 1935 e il 1937 l’economia americana si espanse in maniera sorprendente. Nel ’36 la produzione industriale aveva recuperato ed era tornata al livello pre-crisi. Anche i salari del settore industriale si erano mossi verso un rialzo. Il Pil era cresciuto, fino ad avvicinarsi al valore del 1929. Il tasso di disoccupazione era sceso, anche se restava elevato (al 14%).
Poi, si ripiombò nella depressione. La Federal Reserve inasprì i requisiti di riserva bancaria, ma è probabile che la nuova recessione sia primariamente dipesa da un cambio di orientamento della politica fiscale. Perché il segno della svolta fu stavolta restrittivo. Roosevelt e il suo governo si erano persuasi che il peggio fosse ormai passato e che l’economia poteva correre in assenza di sostegno. In alcuni ambienti ministeriali si adombrava addirittura il pericolo dell’inflazione.
L’amministrazione decise che era giunta l’ora di riequilibrare il bilancio e occorreva ridimensionare i programmi di spesa. Gli indicatori delle prestazioni economiche, invece, si ribellarono e il 1937 fu un altro anno nero. Il Pil scese di oltre il 9%. E’ molto probabile che al fattore della spesa sia da attribuire buona parte dell’arretramento. L’anno seguente i programmi governativi vennero rifinanziati. Nonostante verso la metà del 1938 fosse ricominciata la ripresa, nel 1939 la disoccupazione si situava ancora al 17%.
Teorie a confronto
Quando la crisi proruppe, la scuola di pensiero prevalente indicava di astenersi dall’intervenire. Il sistema teorico dell’epoca non contemplava casi di ‘depressione’ economica. La visione economica dominante proclamava che la crescita dipende sempre e comunque dall’interesse degli imprenditori e qualunque interferenza pubblica distorce i segnali che il mercato invia loro. La teoria vigente ribadiva che la profonda disoccupazione che aveva colpito la società non sarebbe persistita. Il mercato avrebbe badato a se stesso e la ‘correzione’ sarebbe stata rapida, così che l’economia si sarebbe velocemente riportata al livello di attività ottimale.
Questo perché il sistema economico tende in qualunque tempo ad adattarsi fino a raggiungere un equilibrio di occupazione completa, dato per assunto che salari e prezzi sono flessibili. Se la naturale tendenza all’equilibrio presidia la vita economica, bisogna attendere che la ‘guarigione’ da un episodio avverso avvenga spontaneamente. Inoltre, si riteneva che qualsiasi livello di produzione genera sempre il potere d’acquisto necessario per comprare ciò che viene prodotto. (Legge di Say). Le decisioni che da tale visione scaturirono furono fatali. Il Presidente Herbert Hoover, che sedeva nel 1929 alla Casa Bianca, pur conscio della necessità di approntare forme di stimolo all’economia, riteneva che la ripresa avrebbe avuto luogo con pochi e limitati interventi governativi. (In ispecie, interventi di politica monetaria).
Inoltre il Segretario al Tesoro, Andrew Mellon, insisteva nella sua linea ‘liquidazionista’: fallimenti e licenziamenti avrebbero purgato il sistema economico; la gente avrebbe lavorato più duramente e si sarebbe addivenuti a una vita moralmente più elevata. Bastava che il sistema rimuovesse da sé gli ostacoli alla ripresa verso la prosperità. Se ne può inferire che se il governo non avesse interferito nel processo i soggetti inefficienti sarebbero stati espulsi dal mercato, con il risultato di un’economia più solida.
La corrente di pensiero incentrata sull’importanza del ‘Darwinismo sociale’ si sposava con quella incentrata sulla politica della ‘finanza sana’. Seguendo quest’ultima, si giunge alla prescrizione che occorre ristabilire la ‘fiducia’ nel mondo degli affari (la chiave per l’impulso all’offerta) e – per farlo – si deve puntare al pareggio del bilancio pubblico. Molto gradita anche alla comunità finanziaria, questa politica avrebbe segnalato la neutralità del governo nei confronti dell’inevitabile processo di naturale aggiustamento – come detto, ritenuto tipico – del mercato.
Questo è quello che l’amministrazione Hoover finì per ‘fare’, aggravando la situazione. (Probabilmente, più che di errori ‘di fare’ si trattò di errori di omissione). All’epoca, la scena del dibattito americano relativo alla scienza economica vedeva al suo centro Irving Fisher, l’economista che nella sua opera ‘Booms and depressions’ aveva delineato il fenomeno della ‘deflazione da debito’. Sebbene, in passato, Fisher avesse in una qualche misura preso le distanze dal laissez faire classico, la sua diagnosi delle crisi non era andata oltre disfunzioni dovute a fattori monetari. Di conseguenza, gli interventi di stabilizzazione da lui auspicati restavano confinati a tale ambito. (Durante la presidenza di Roosevelt, si espresse duramente contro i programmi di lavori pubblici allora implementati, definendoli ‘lenti, goffi, costosi e inefficienti’ e più tardi, a ripresa avvenuta, non riconobbe alcun ruolo propulsivo alla politica di spesa pubblica che, nel frattempo, era stata adottata).
Nel mentre, in Gran Bretagna, dove il dramma della disoccupazione era avvertito fin dagli anni ’20 – il Paese era imprudentemente rientrato nel ‘Sistema aureo’ già nel 1925 – stava maturando una diversa coscienza della Depressione e del funzionamento dell’economia. Controcorrente rispetto alla dottrina prevalente, John Maynard Keynes sostenne che la persistenza della disoccupazione alla quale si assisteva non dipendeva dall”ostinatezza dei lavoratori nel non voler accettare riduzioni salariali, né dipendeva dall’indolenza individuale. La causa della disoccupazione non andava nemmeno ricercata in imperfezioni incistate nel mercato del lavoro, come l’azione dei sindacati.
Keynes introdusse il principio della domanda effettiva. La crisi e la mancanza di impiego trovavano spiegazione nella fase di debolezza della domanda aggregata che l’economia stava attraversando. A ciò correlato, stava il fenomeno della preferenza per la liquidità: quale che fosse il livello del reddito, i tempi difficili della depressione inducevano i soggetti individuali a non spendere e a detenere attività il più possibile liquide. Naturalmente ne veniva una bassa domanda di prodotti, tale da comportare il mancato pieno utilizzo della capacità produttiva e, appunto, la disoccupazione. Venendo meno nel mercato dei beni la possibilità di incontrare una domanda sufficiente per la vendita profittevole dei prodotti, le imprese riducevano l’attività e licenziavano personale.
Secondo Keynes, ovviamente, non sarebbero state le suggestioni del Segretario al Tesoro americano a porre rimedio alla catastrofe della disoccupazione dilagante e della povertà. Il rimedio giaceva nella presa d’atto della situazione e nel convincimento – da parte del governo – che esso stesso doveva intraprendere un ruolo attivo e diretto all’incremento della domanda complessiva.
Era stata proprio l’inerzia del governo a tramutare una recessione in una depressione. Il pareggio del bilancio pubblico era un ostacolo alla ripresa piuttosto che la soluzione. Anzi, perseguire il pareggio dei ‘conti del settore pubblicò non faceva che precipitare la condizione dell’economia sempre più a fondo. Inoltre, già nel 1930 Keynes aveva ritenuto che la crisi sopravvenuta non fosse un ‘normale’ correttivo per l’eccesso di investimento del passato, come era d’uso pensare fino a quel momento. La banca centrale – in un mondo in cui la moneta non è neutrale e domina l’incertezza – ha la funzione primaria di fornire la liquidità sufficiente per servire la crescita e, fintanto che non è raggiunto l’obiettivo del pieno impiego, non deve anteporre timori di comparsa dell’inflazione.
Nel 1937, come anticipato, gli Usa conobbero una nuova recessione. Non è improbabile che il taglio della spesa destinata ai programmi federali portasse la ‘pistola fumante’. Al principio del 1938, quando gli Stati Uniti si ritrovarono in recessione, Keynes scrisse al presidente Roosevelt. Pur esprimendo apprezzamento circa i programmi di spesa implementati durante gli anni precedenti, volle tuttavia ammonire l’amministrazione riguardo alle riduzioni dei fondi attuate sugli stessi programmi. Informò il presidente che, a meno che non si fosse realizzato un flusso di spesa compensativo in altri settori dell’economia, l’effetto recessivo della diminuzione di spesa governativa sarebbe dovuto essere previsto. Aggiunse che ‘il mantenimento della prosperità nel mondo moderno è estremamente difficile. Ed è molto facile perdere tempo prezioso’.
Conclusioni
Purtroppo, non sempre dall’esperienza storica affiora l’insegnamento a non replicare gli errori, anche i più deleteri. Anche le epoche caratterizzate dai più intensi contenuti di drammaticità finiscono per essere offuscate dalle coltri di nebbia che lo scorrere del tempo innalza. Riemerge così la crudezza degli interessi egoistici, a volte rintuzzati da qualche forma di politica ‘illuminata’ e a volte appiattati nelle pieghe della struttura sociale, ma costantemente in assetto da assalto.
Così, a qualche decennio di distanza dal New deal si è assistito al ritorno della deregolamentazione dei mercati e alla ricomparsa dei disastri finanziari, fino a sfociare – all’inizio del 21° secolo – nel più nefasto periodo di crisi dai tempi della ‘Grande depressione’. In una colossale ‘fuga dalla realtà’, alle banche è stato di nuovo consentito di scrollarsi (in apparenza) dai rispettivi bilanci il rischio legato ai prestiti concessi. Ma nel nugolo di società veicolo, strumenti derivati e ‘istituti ombra’, il fattore rischio si è preso la sua rivincita. Purtroppo, una politica collusa e scellerata ha fatto (e fa tuttora) ricadere sulle masse degli ultimi il prezzo rancido del solipsismo proprio delle ‘élites’ affaristiche.
Strettamente connesso al tema appena accennato vi è quello della disuguaglianza, la cui tendenza è connaturata al sistema capitalistico. Prima della ‘Grande depressione’, la produzione e la produttività per lavoratore erano stati in ascesa. Stipendi e salari erano invece rimasti stabili. I profitti erano dunque aumentati. L’elevato livello dei profitti doveva portare a un incremento del consumo di beni di lusso oppure a un incremento degli investimenti in beni capitali. Durante gli anni ’20, in effetti questi ultimi erano cresciuti a un tasso annuo del 6,4%. (Un ritmo superiore rispetto alla crescita dei beni di consumo e dei beni durevoli).
E’ stato stimato che il 5% della popolazione collocata nella fascia di reddito più elevata riceveva un terzo del reddito complessivo. Una ripartizione così diseguale implica che l’economia deve sostenersi su un rilevante livello degli investimenti e dei beni di lusso, dato che i beni di consumo dei benestanti non possono eccedere una soglia ‘fisiologica’. Ma i flussi delle prime due categorie di spesa sono anche più variabili rispetto alla spesa per consumi tipica dei redditi medio-bassi. (Un altro canale di ‘riciclaggio’ dei profitti fu, specialmente dal 1927, quello della speculazione in borsa). Il che ha indotto a individuare nella eccessiva sperequazione del reddito uno degli elementi all’origine della crisi degli anni ’30 del novecento.
E’ risaputo che l’andamento dei redditi nel mondo occidentale durante i decenni a partire dagli anni ’80 non sia stato favorevole – in generale – al lavoro dipendente. Pochi dubbi aleggiano sul fatto che la regressione del lavoro rispetto al capitale è anzitutto il risultato dell’assetto di potere che istituzioni tornate ad ispirarsi al lasseiz faire hanno forgiato. E’ probabile che la quota calante del reddito da lavoro sul reddito globale abbia influito in maniera determinante all’incubazione della sventura occorsa nel 2007-2008.
Un’altra lezione derivata dalla ‘Grande depressione’ che, purtroppo, è stata sormontata dalla legge del profitto, dall’egoismo e da una politica affetta da veduta corta. C’è voluto un evento inaspettato come la pandemia virale tuttora in corso per cominciare a rimettere in discussione – nei fatti e con una qualche serietà – l’ortodossia economica degli ultimi 40 anni. Vedremo sino a quale punto ci si saprà inoltrare. Le retrive forze che la difendono sono già all’opera.
Si ringrazia l’amico Paolo Ducoli per i consigli – tratti da una sua tesi – sull’argomento e l’amico Roberto Busiello per gli spunti emersi durante le discussioni sulla crisi del ’29.