Gli indicatori economici e sociali, produttivi e demografici del nostro paese sono impietosi, quasi brutali nella loro essenzialità, e stilano il resoconto di una Italia in piena regressione, incapace di rinascere e ridefinire il senso di una nuova missione nel mondo diseguale e terribile della globalizzazione capitalistica.
Siamo scesi sotto la fatidica soglia psicologica dei 60 milioni di abitanti, il crollo delle nascite, l’insicurezza economica, la crisi demografica del Meridione d’Italia, un tempo centro propulsore della natalità nazionale, danno la misura della difficoltà dell’Italia nel trovare una prospettiva di crescita e una nozione di futuro accettabile e condivisa dalla popolazione; non solo, la disoccupazione “ufficiale” oltre il 10%, ma probabilmente più alta, il numero dei cittadini che fanno irruzione nella categoria della “povertà assoluta”, ben un milione in più dall’inizio della pandemia, quasi quattro milioni in totale, che si sommano ai 6,3 milioni di lavoratori poveri, che hanno redditi precari e scarsi risparmi, ben 10,4 milioni di persone!, i 945mila italiani che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno, gli oltre 700mila inattivi, il 33% dei giovani disoccupati, compongono un quadro della situazione a tinte fosche, nerissime, da far tremare le vene ai polsi.
Molto semplicemente l’Italia non ha futuro così, se non quello di rassegnarsi ad una povertà di massa fatta di mancanza di reddito e di lavoro, di bassi salari ed emigrazione forzata. E tutto questo mentre media e politici amabilmente dibattono, quasi svogliati, di diritti civili, di correttezza politica, di cosa può essere oggetto di riso e satira e cosa no, di eutanasia, di gravidanze solidali, di comici e influencers, della sfera dei diritti richiesti dalla comunità lgbt e omosessuale, tutto, pur di non discutere delle condizioni materiali di un paese stanco e sfiduciato, impoverito e deprivato di beni comuni essenziali per l’esercizio di una reale sovranità democratica.
Con questo non si vuole sostenere l’insussistenza dei diritti civili, o che il novero delle possibilità di emancipazione umana siano limitate alla dimensione economica, ma che il terreno economico rimane il centro di gravità delle relazioni sociali, la fonte primaria di ogni possibile riscatto e dignità individuale e collettiva. Senza di esso non è possibile poter parlare di “società giusta”.
L’impressione è che l’ossessivo concentrarsi sui soli diritti civili a scapito di quelli sociali e delle rivendicazioni economico-sindacali, sia servito, almeno a partire dagli anni novanta, ad occultare la vera posta in gioco delle società occidentali in affanno per gli effetti degli scambi globalizzati, che è l’accettazione di una sorta di diseguaglianza strutturale tra classi, ceti e individui, e che dovrebbe essere l’obiettivo polemico di una sinistra anche solo socialdemocratica degna di questo nome. Che, purtroppo, in Italia non esiste.
Questo è il dramma politico tutto italiano che ci rende in un certo qual modo “speciali” rispetto agli altri paesi europei e dell’Occidente avanzato: soffrire delle storture della fase storica attuale, ma senza gli strumenti politici di contrasto che, parzialmente, altri non hanno disattivato come noi, colpevolmente, abbiamo fatto. Abbiamo tutto il peggio, come abbiamo visto dai numeri, dell’ingiustizia del capitalismo predatorio, ma senza una politica critica dell’esistente in grado di mutare le cose. D’altronde, se la politica italiana, o quello che ne rimane, si è ridotta a pandere dalle labbra di comici e influencers, il decadimento dello spirito pubblico è un dato oramai acclarato, che ha radici profonde e spesso inesplorate nella nostra vicenda storica.
Avremmo bisogno di una classe dirigente autorevole e culturalmente strutturata, in grado di proporre una nuovo patto di cittadinanza fondato sul ribaltamento delle politiche antipopolari perseguite per tre decenni, dotata di senso dello stato e di una rinnovata percezione dei fatti economici, ma soprattutto capace di “fare gli italiani”, finalmente, contrariamente all’andazzo solito della storia italiana, che ha sempre visto le classi dirigenti governare contro gli italiani. Una utopia? Forse, ma senza la politica non è che mera amministrazione dell’esistente, un draghismo d’accatto, forma deteriore della crisi della democrazia.