Molta stampa ci bombarda con il concetto secondo il quale il peggior pericolo della nostra epoca sarebbe costituito dal fondamentalismo intollerante ( etnico, religioso…) e ci prospetta come rimedio il multiculturalismo. Ma è davvero così scontato? E se il modo prevalente in cui si manifesta la tolleranza multiculturale non fosse così innocente come si vorrebbe far credere? Spesso infatti il multiculturalismo nasce da un processo di spoliticizzazione. E se questo multiculturalismo spoliticizzato fosse la nuova ideologia del capitalismo globale?” Così scriveva Slavoj Zizek nel 2003, all’indomani della “guerra infinita” che la “democrazia” statunitense avrebbe imposto al mondo come risposta alla minaccia terroristica, il cuore politico dell’imperialismo occidentale dopo l’11 settembre.

Il filosofo e psicoanalista sloveno, diventato nel frattempo una star della filosofia, con questa potente intro al suo “Difesa dell’intolleranza”, un titolo solo apparentemente paradossale, costruiva un punto di partenza per svolgere, con il suo consueto virtuosismo argomentativo, la sua invettiva corrosiva contro i capisaldi del pensiero e della prassi del politicamente corretto, da lui giustamente individuati come il male politico per eccellenza della nostra epoca. E non si sbagliava. Infatti a quasi vent’anni di distanza siamo ancora in questo cul de sac, non ne siamo mai usciti. Impegnati in un turbinio di “nuovi diritti” che prendono la scena, aggrovigliati in una pluralità di richieste identitarie e di genere, vedi il caso paradigmatico del neosegretario piddino Letta, di gruppi e sottogruppi segmentati per appartenenze culturali che oscurano la grande contraddizione di fondo delle società: il conflitto Capitale-Lavoro, la guerra tra chi ha e chi non ha, tra chi detiene le leve del potere economico e finanziario e chi può vendere solo il proprio lavoro per vivere.

La sua proposta propende per un ritorno alla lotta politica, fonte di discordia, “divisiva” si direbbe oggi, con il lessico tipico di questa epoca depoliticizzata, orwelliana, potremmo dire, ma sola possibilità di ritornare a contare per le masse di subalterni del mondo globalizzato. Solo ripoliticizzando l’economia politica, e lo spazio pubblico, secondo Zizek, e secondo noi, sarà possibile riformulare le coordinate del gioco politico oggi consentito, rimettendo in circolo strumenti e teorie critiche del reale, e liquidando la finta lotta politica odierna che non è altro che una foglia di fico per coprire gli interessi dominanti. Come la politica in Usa, che si vorrebbe democratica perché ogni quattro anni due esponenti del complesso economico-finanziario si affrontano costruendo differenze minime, di tono, di atteggiamento, di stile, per cercare di mobilitare elettorati sempre più stanchi e apatici.

Il filosofo sloveno ci propone un ritorno ai pensieri “forti”, alle ragioni della totalità che non vuol dire totalitarismo, ma capacità di disegnare mondi alternativi che è il senso ultimo della grandezza e della dignità della politica, l’invito alla politica di Zizek è tutto il contrario del citazionismo postmoderno che sembra aver sedotto e abbindolato questa epoca. E il fatto che a distanza di quasi un ventennio le sue parole suonino profetiche e attualissime, ci dà la misura del dramma politico nel quale siamo immersi: il mondo vecchio è morto, non va più bene, ma il nuovo non nasce, né può farlo, perché la consapevolezza della Crisi non è ancora patrimonio di chi dovrebbe ribellarsi allo stato delle cose presenti.