Da anni in Italia si discute di Seconda Repubblica ovvero del periodo repubblicano che va dal 1994, anno della “discesa in campo” di Berlusconi dopo il crollo della Prima Repubblica (la Repubblica dei partiti, secondo la fortunata definizione di Pietro Scoppola, durata quasi un cinquantennio, dal 1946 al 1992), al 2018, anno che vede la straordinaria avanzata elettorale del populismo pentastellato che rompe il duopolio centrodestra-centrosinistra, ritmo politico dell’alternanza che ha scandito un quarto di secolo di vita nazionale. E si discute se viviamo ancora nella fase terminale della seconda repubblica o se siamo in un segmento temporale del tutto nuovo, la Terza Repubblica.
Etichetta carica di fascino, che ci fa sembrare più simili alla grandeur periodizzante francese, ma di cui fatichiamo a scorgere gli aspetti innovativi e le ricadute positive per la comunità nazionale, in questo l’ultima novità classificatoria dell’inesauribile scorta del politicismo italico condivide lo stesso triste destino della Seconda Repubblica, ancora oggi non troviamo nulla o quasi di progressivo e giusto fatto dalla classe politica per 25 anni.
La verità è che viviamo dalla caduta del Muro, e soprattutto dalla rivoluzione digitale in poi, in una sorta di dimensione allucinata e nevrotica fatta di un eterno presente senza spessore politico e senza consistenza storica, incapaci di pensare il passato, leggere il presente e costruire il futuro, immersi nel funzionalismo esasperato e senza finalità della tecnica coniugata con il dominio della ragione liberista, per cui anche le varie fasi della vicenda repubblicana, che pure ci sono, ci passano sopra senza possibilità di poterne fermare dei fotogrammi per riflettere politicamente sugli eventi.
In realtà, la periodizzazione trova un senso storico e politico se andiamo al cuore dei processi politici ed economici che segnano il susseguirsi degli eventi, e scopriamo che se nella cosiddetta prima repubblica a farla da padrone è stata la mediazione partitica e sindacale, spia di una più generale attitudine alla mediazione sociale, nella seconda questa progressivamente viene meno, per annullarsi definitivamente nella terza, saturata dal populismo, solo ed unico vettore legittimante del discorso politico.
Di più, se nella prima fase della storia repubblicana il ventaglio delle opzioni ideologico-politiche era ampio e in grado di soddisfare ogni gusto politico e tendenza culturale, dal liberalismo ottocentesco di stampo crociano al leninismo gramscista depurato dagli eccessi “asiatici”, passando per il cattolicesimo democratico e il socialismo riformista, nella seconda il crollo delle possibilità politiche è verticale e repentino, ogni istanza che marcava la differenza socioeconomica è annullata in favore di una monopolitica economica di stampo liberista debitrice del Washington Consensus, con al massimo la possibilità di cambiare gli attori dello spartito che doveva rimanere unico, ai quali viene concesso di discutere al massimo dei dettagli del sistema, ma non certo il sistema in quanto tale.
In definitiva, dal conflitto tra ideologie all’ideologia dell’assenza di ogni conflitto, la lotta di classe non esiste più, al massimo si consente la collaborazione tra le classi, in verità mascheramento ideologico di rara potenza che occulta la realtà del dominio della classe dei capitalisti su tutto il resto della società: l’1% contro il 99%.
Il tutto da una parte ottiene una larga ricezione anche nella Terza Repubblica, mancando soggetti politici realmente alternativi e portatori di istanze diverse, dall’altra vede una confusa e a tratti sterile rilettura critica da parte del Movimento Cinquestelle, che assorbe e ingloba pezzi di dissenso al dominio liberista spesso inconsapevoli, senza una lingua politica adeguata ad esprimere le disfunzionalità delle logiche dell’accumulazione digitale, ma che comunque anche con immaturità e faciloneria esprimono una non totale aderenza alla modellistica neoliberale.
Questo prorompere sulla scena del grillismo di massa rompe il monopolio a due tra il centrodesta e il centrosinistra che si dividono le spoglie della prima repubblica, che hanno anche visioni etiche e radicamenti sociali differenti, ma parlano lo stesso linguaggio in economia. Anzi, sui vincoli di bilancio e sulle logiche austeritarie forse il centrosinistra pecca di un eccessivo zelo in omaggio al sergente di ferro brussellese.
In conclusione, possiamo parlare di una sorta di scala che è ritmata da un grado massimo di scelta opzionale, la prima repubblica, che vede una dura guerra ideologica per il controllo del senso comune del paese, fino ad arrivare ad un grado zero quale la fase attuale, la terza, che vede la morte di ogni opzione sull’altare del mantra che si condensa nell’acronimo T.I.N.A., se non fosse per la confusa azione pentastellata, passando per la seconda che presentava ancora dei caratteri di opposizione sistemica, per quanto indeboliti e residuali. La discussione è ancora aperta e in corso, e forse la crisi che si è aperta con la caduta del Gabinetto Conte Secondo ci dirà qualcosa di più sui caratteri strutturali di questa terza fase della nostra esperienza repubblicana.