Qualche giorno fa il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, si è spinto fino all’annuncio dell’intenzione di proporre un referendum abrogativo nei confronti della legge relativa al ‘Reddito di cittadinanza’. Non si tratta soltanto dello sfrenato egotismo di Renzi.
Si tratta anche, nel concreto, di una richiesta della Confindustria.
Ricordiamo che, nel passato recente, il fondatore di IV ha provocato una scissione nel Partito democratico e ha ritirato il proprio appoggio al governo Conte II, senza che – in ambedue i casi – fossero ravvisabili motivi di dissenso rispetto alla base valoriale e al nucleo di interessi promossi, nell’ordine, da Zingaretti e Conte. (Sia il Pd che Conte non possono certo dirsi ‘progressisti’ di sinistra, e quindi ideologicamente distanti da Renzi).
In effetti, con la riapertura post-pandemia, molte voci si sono levate contro il Rdc (Reddito di cittadinanza), accusando il sussidio di costituire un serio ostacolo all’accettazione di lavori legati – in prevalenza – al turismo e ai servizi di ristorazione.
In realtà, gli strali contro il Rdc – venuti anche da parte di Matteo Salvini – sono piuttosto ingenerosi. Essi rivelano, ancora una volta, il desiderio di molte piccole imprese (e non solo piccole) di far ricadere sui lavoratori – soprattutto sui giovani, i già maggiormente penalizzati da tutte le riforme del mercato del lavoro liberiste approvate negli ultimi decenni – le perdite subite durante il periodo di chiusura delle attività. (Al netto dei vari sostegni ricevuti, magari poco cospicui anche a causa dell’evasione fiscale).
Il Rdc rappresenta in verità un parziale antidoto alla povertà estrema e, soprattutto, limita il potere di ricatto che numerose aziende esercitano sulle persone in cerca di occupazione.
Se viene rifiutato un lavoro in un esercizio turistico-commerciale significa che le condizioni di salario, orari e stabilità del posto sono inferiori rispetto a una condizione lavorativa contrassegnata da un minimo di decenza.
Laddove vengono applicati i contratti collettivi di lavoro ‘ standard’, i lavoratori si trovano.
Il Rdc andrebbe ampliato, piuttosto che abolito. E sarebbe tempo che venisse abbandonata la facile retorica che predica l’indolenza dei giovani schizzinosi.
Bisognerebbe puntare su una spinta al rialzo dei salari, invece che seguitare a perseguire la ricerca della competitività sul costo del lavoro.
Nella prima ipotesi, la spinta al rialzo sortirebbe effetti positivi sulla produttività e sul Pil, laddove invece, la compressione delle retribuzioni danneggia l’innovazione e la produttività. Prova ne è il fatto che l’Italia – da Paese industriale avanzato – è oramai degradata a Paese in cui predomina il settore dei servizi a basso valore aggiunto e lavoro ‘povero’. Si tratta del risultato di decenni durante i quali i rapporti di forza – complice determinante la classe politica – hanno subito una svolta a favore del potere in capo alle imprese private. Congiuntamente, si è fatto assegnamento sulle virtù del ‘mercato’ e il risultato si è palesato in quanto appena descritto.
Ma tutto questo, oltre all’assenza di una vera politica economica e di una degna politica industriale, evidentemente non è nella percezione dei partiti al governo. (Con la legge di conversione del ‘Decreto sostegni bis’ sono praticamente state rese derogabili anche le timide rigidità – le causali nei contratti a termine – che erano state introdotte dal ‘Decreto dignità’).
Renzi, rappresentante delle ‘elites’ per antonomasia, mira forse ad approfondire il solco già scavato all’interno del Movimento 5 Stelle. Un movimento in caduta libera, proprio da quando buona parte di esso si è accomodato nel salotto delle ‘elites’ che, originariamente, aveva in animo di contrastare.
I partiti al governo sono costantemente impegnati nella ricerca del consenso immediato, con l’eccezione, forse, del ‘Piano nazionale di ripresa e resilienza’, per l’attuazione del quale è stato invocato un nuovo ‘salvatore della patria’. Purtroppo, però, rispetto ai veri problemi del Paese, anche il Pnrr rivelerà presto la sua insufficienza e la sua inadeguatezza.