A maggio, il tasso di inflazione rispetto a un anno fa è stato pari a 6,9%. In generale, non si tratta di un livello particolarmente allarmante, ma il dato risalta se paragonato alla sostanziale assenza del fenomeno negli ultimi decenni. Il “ritorno dell’inflazione” ha suscitato l’istinto “di classe” del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.
Durante le sue Considerazioni finali all’Assemblea generale dell’istituto, Visco ha infatti parlato di rischio che si scatenino “vane rincorse tra prezzi e salari”. Ma perchè il Governatore ha rivolto il suo monito unicamente ai lavoratori? Egli avrebbe potuto dire: “invitiamo le imprese a evitare aumenti dei prezzi e rinunciare a una parte dei margini di profitto”. Infatti, è ben noto che affinché si inneschi la tanto temuta spirale salari-prezzi sono due i meccanismi che devono operare: da parte dei sindacati, efficaci rivendicazioni salariali; da parte delle imprese, un integrale trasferimento dell’aumento dei costi sui prezzi finali.
Al fondo della questione, vi è l’eterno conflitto distributivo fra retribuzioni e profitti. Su quali categorie sociali devono ricadere i sacrifici causati dai prezzi dei beni (si tratta, perlopiù, di quelli importati) in aumento? Estinta la rappresentanza politica del lavoro, l’intera classe dirigente nazionale è da due decenni schierata univocamente dalla parte dei percettori di profitto.
I sacrifici ricadono immancabilmente sui redditi da lavoro. (I compensi dei lavoratori dipendenti in Italia sono stati fermi prima della crisi del 2008; dopo sono addirittura declinati. I profitti d’impresa sono invece aumentati, ad es. fra il 2013 e il 2020). Vi è un’ipotetica giustificazione alla presa di posizione di Ignazio Visco: l’idea che proteggere i margini di profitto comporti adeguate scelte di investimento da parte delle imprese e conseguenti notevoli incrementi della produttività. Purtroppo, l’evidenza storica recente attesta l’esatto contrario.
Le imprese – soprattutto quelle di piccole dimensioni – competono sul mercato grazie al basso costo del lavoro. Contano inoltre su agevolazioni e sussidi fiscali. Diviene così poco rilevante la spinta a investire in ricerca, sviluppo, nuove tecnologie. Aumentano le attività di servizi a basso valore aggiunto. Così la produttività è stata, in media, dello 0,4% annuo tra il 1995 e il 2020, ossia un quarto rispetto a Francia e Germania. Tuttavia, a ben vedere, non vi è un concreto rischio che si inneschi una spirale salari-prezzi.
Le condizioni attuali sono molto diverse rispetto allo scenario degli anni’70 del secolo scorso. Le pretese salariali sono ampiamente conculcate dallo stesso Accordo interconfederale del 2018, che tiene conto dell’inflazione depurata dai beni energetici. Un trasferimento dell’aumento dei costi sui prezzi finali è – per le imprese – oggi reso più difficoltoso dall’impossibilità di fare ricorso alla svalutazione dell’euro.
Le rappresentanze sindacali sono ridotte in stato catalettico e l’appartenenza all’euro obbliga alla compressione salariale. Prendendo di mira soltanto il primo dei due meccanismi prima descritti, Visco ha comunque ribadito in quale schieramento ideologico si colloca la classe dirigente del Paese. La moderazione salariale deve persistere, ha la valenza di un’istituzione. Non si accarezzi, quindi, il proposito di deviare rispetto all’ortodossia.