Arpino è oggi una ridente cittadina del Basso Lazio – più precisamente: della Ciociaria – che, situata in collina, ospita da alcuni decenni il celebre Certamen ciceronianum, una “gara” di traduzione dal latino cui moltissimi anni fa partecipò anche lo scrivente, senza troppa fortuna (la versione mi riuscì male, e le critiche salaci al Genius loci fecero il resto). Ricordo la cerimonia di premiazione sotto una pioggia battente, gli occhi verdi e la gentilezza di una ragazza del posto fuggevolmente conosciuta in extremis (attaccò a parlarmi in inglese, avendomi scambiato per uno straniero).

Marco Tullio Cicerone è senz’altro l’arpinate più celebre, ma questa località di provincia diede i natali, in epoca romana, a due personaggi non meno illustri: il primo è Caio Mario, il secondo Marco Agrippa, braccio armato di Ottaviano Augusto. La fama e l’importanza storica di Mario sono attestate dal fatto che, fino a qualche tempo fa, questo nome proprio era il più diffuso nella penisola: questione di merito più che di fortuna, perché l’ambiente sociale da cui proveniva non era particolarmente prestigioso. Si dice fosse figlio di contadini, ma ciò non implica affatto esclusione o “povertà”: quella romano-italica era una società rurale, in cui l’agricola era quasi sempre un piccolo, talora un medio proprietario terriero. Allora come oggi i poveri “veri” abitavano non le campagne, bensì i quartieri suburbani e quelli degradati delle città; in ogni caso gli avi di Caio non erano latifondisti, né appartenevano all’altezzosa nobiltà romana. Si poteva insomma preconizzare per il nuovo nato una carriera da notabile locale, magari un qualche incarico “gestionale” nell’esercito – invece doti e qualità fuori dall’ordinario fecero di lui il “terzo fondatore di Roma” oltre che il “recordman” di consolati (ben sette!) del periodo repubblicano.

Degli esordi sappiamo abbastanza poco, anche se le fonti testimoniano la sua presenza all’assedio di Numanzia, condotto svogliatamente da Scipione Emiliano (il distruttore di Cartagine). Caio fa parte di una ristretta élite di giovani e promettenti ufficiali, quasi tutti di origine patrizia: fra costoro c’è Q. Cecilio Metello, il futuro Numidico (soprannome, come vedremo, usurpato…), e il rapporto di clientela dei Marii nei confronti della potentissima gens romana spiega forse l’insperata opportunità offerta al giovane arpinate. Sotto la guida dell’Africano minore, comunque un buon generale, egli apprende i rudimenti dell’arte del comando – pare anche che familiarizzi con Giugurta, intelligente e ambizioso principe numida che parecchi anni più tardi sarà chiamato ad affrontare.

Il legame – da subalterno – con i Cecilii Metelli non impedisce a Mario di abbracciare la causa dei populares, la “sinistra” dell’epoca, i cui voti gli frutteranno prima il tribunato della plebe, quindi la pretura (conquistata per il rotto della cuffia). La scelta di campo è dettata dalle circostanze, non da idealismo o da meditate convinzioni politiche: l’arpinate non si prefigge di riparare le ingiustizie sociali né di riformare istituzioni in crisi – aspira, diremmo oggi, a un posto al sole. Anche se rivelerà, in seguito, una certa propensione agli intrighi egli non è né mai diventerà uno statista: ciò che lo attrae è la gloria militare. Un governatorato nella penisola iberica gli consente di illustrarsi come comandante (e di ingrossare sensibilmente il suo patrimonio): otterrà un trionfo generosamente concessogli, visto che l’impresa non è memorabile. Ben altrimenti impegnativa è la contesa con Giugurta, ormai re dei Numidi: l’ingegnoso monarca africano batte i romani più con l’oro che con il ferro – nella sua rete corruttiva cadono senatori e maggiorenti dell’Urbe (“O città in vendita e presto destinata a perire, se si troverà un compratore!”). Dopo le umilianti sconfitte patite da Albino è il console Quinto Metello ad assumere il comando – a fargli da vice è proprio Caio Mario, che però briga per sostituirlo. Metello è un generale prudente, ma irresoluto: la guerra si trascina stancamente, le promesse mariane di una celere vittoria sul nemico persuadono il popolo a premere per l’avvicendamento. Mario ottiene risultati migliori rispetto al predecessore, ma sono la scaltrezza e il sangue freddo del suo sottordine Lucio Cornelio Silla a consentirgli di catturare il sovrano numida, che viene tradito e consegnato ai Romani dall’alleato Bocco di Mauritania. Giugurta sa troppe cose, e tutte imbarazzanti per l’oligarchia dell’Urbe – perciò viene subito messo a morte. Il merito della rischiosa operazione di intelligence è tutto di Silla, ma gli onori del trionfo toccano a Caio Mario: la folla romana non ama il pallido e taciturno rampollo di una famiglia decaduta (i Cornelii sono sì patrizi, ma spiantati), va invece in visibilio per quel provinciale alto e aitante, dalle maniere schiette e dai tratti contadineschi.

L’eliminazione di Giugurta non tranquillizza Roma, poiché un altro e più temibile nemico si affaccia all’orizzonte: enormi masse armate stanno fuoriuscendo dalla sconosciuta Germania e minacciano le province d’oltralpe e la stessa Italia. Sono confederazioni di popoli in marcia, le cui componenti maggioritarie sono i Cimbri e i Teutoni. Nei confronti dei Germani i quiriti nutrono un timore reverenziale: spaventano la loro audacia, la belluina ferocia, la statura “gigantesca” e l’ardore in battaglia. L’esito dei primi scontri getta la città nel panico: piccoli eserciti romani vengono sbaragliati prima che, ad Arausio (105 a.C.), due armate consolari siano letteralmente annientate – i caduti sono più numerosi di quelli di Canne. Per fortuna dei Romani dopo lo strepitoso successo i barbari decidono di passare in Spagna, e perdono così l’occasione di prendersi una capitale indifesa.

Chi può parare la minaccia? Soltanto Caio Mario, che si dimostrerà in effetti l’uomo della provvidenza. Bisogna creare un esercito praticamente dal nulla e l’arpinate, poco interessato alle riforme politiche, dà prova di uno spiccato talento per quelle militari.

Quello repubblicano “classico” è un esercito di medi e piccoli possidenti: non mi riferisco agli ufficiali, in genere di famiglia facoltosa, ma ai soldati nel loro insieme. In qualità di contribuenti i cives romani debbono provvedere da sé all’equipaggiamento: non tutti possono permettersi una costosa armatura, sostituita per gli hastati da un pettorale bronzeo. Anche per far parte del corpo dei velites – la fanteria leggera – occorre contare su un minimo di entrate: proletari e capitecensi sono esentati dalla leva. A differenza di oggi, insomma, quanto più elevato è il censo tanto maggiore è la responsabilità verso lo Stato, che da chi nulla ha nulla pretende, se non una generica fedeltà. Durante le guerre annibaliche la penuria di reclute ha costretto la Res publica ad arruolare, a spese dell’erario, poveracci e persino schiavi, ma si è trattato di decisioni eccezionali, imposte dalla necessità. Il problema è che, col passare dei decenni, le file della classe contadina si sono assottigliate, causa l’espandersi del latifondo: dopo la disfatta di Arausio Roma si trova a fare i conti con l’esaurirsi delle risorse umane “tradizionali”.

(fine prima parte)