I periodi di grave crisi e profonda incertezza, si sa, sono – almeno potenzialmente – suscettibili di modificare il grado di intervento dei poteri pubblici nell’economia e nell’ambito dei rapporti sociali. Come è noto, da parte delle istituzioni europee è stata sospesa l’applicazione del “Patto di stabilità e crescita”. Inoltre, bisognerà gestire le risorse del “Fondo per la ripresa” (Recovery fund), anche se esse non saranno disponibili prima del 2021.
Potrebbe essere questo ordine di considerazioni a spiegare il netto “attivismo” del Presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, fatto registrare fin dal suo recente insediamento avvenuto il 20/05/2020.
Questi, infatti, durante i mesi della sua presidenza, si è distinto per i suoi proclami e per non avere lesinato lanci di bordate all’indirizzo del governo e dei sindacati.
Cerchiamo di enucleare – dal coacervo di esternazioni e uscite pubbliche del Presidente – quali sembrano i suoi “timori” e vediamo se le sue richieste al governo possono classificarsi disinteressate e all’insegna del bene generale.
Il primo attacco al governo, pochi giorni dopo la sua nomina al vertice degli industriali (Repubblica del 31/05/2020), ha riguardato il blocco dei licenziamenti disposto durante l’impazzare del Covid19.
Non solo: nell’occasione il neopresidente si è speso in un affondo contro il governo – fa più danni del Covid; basta con risorse e bonus a pioggia; attenzione alla spesa pubblica e quindi no a conferme di quota 100 o tagli alle tasse non sostenuti da revisioni strutturali della spesa –, e se l’è poi presa con il sindacato – guarda al lavoro dallo specchietto retrovisore mentre il mercato del lavoro è sottoposto a una revisione radicale; bisogna puntare sulla produttività prima di chiedere aumenti salariali e “ridurre” lo spazio di contrattazione nazionale –. Infine, il consueto spettro delle tasse alle imprese e alle famiglie per ripagare il debito pubblico.
Posizioni ribadite e estremizzate in un documento interno del 27/08/2020, mandato alle associazioni del “sistema Confindustria”. Protrarre il blocco dei licenziamenti è un grave errore perché – ha detto Bonomi – “gli effetti di questo congelamento del lavoro potrebbero essere pesanti, in termini sociali e per le imprese”. E, di nuovo, sui contratti di lavoro: vogliamo rinnovarli, ma li vogliamo rivoluzionari “rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari”, perché “nel frattempo è il lavoro e sono le tecnologie, i mercati e i prodotti, le modalità per produrli e distribuirli, ad essersi rivoluzionati, tutti e infinite volte rispetto a decenni fa”. Libertà di licenziare quindi, unita a politiche attive del lavoro puntando tra l’altro su formazione e riqualificazione professionale, ricollocazione e reimpiego. (Inconsistente posizione preconcetta, che ipostatizza il pieno impiego nel libero mercato). Dopodiché, il consueto ma stantio richiamo al conflitto generazionale: “Un paese che deruba le giovani generazioni con un welfare squilibrato sulla previdenza e che li priva della formazione di base e permanente necessaria di fronte all’evolvere delle tecnologie, è un paese che rende ancor meno sostenibile il suo debito” –, e ancora l’agitazione della paura del debito pubblico:
“Un paese che illude milioni di italiani sul perenne sostegno pubblico al reddito, dimentica che con un debito pubblico oltre il 160% del Pil verranno problemi seri il giorno in cui la Bce deciderà il rientro delle sue misure straordinarie – che esistono proprio perché ‘a tempo’ – e l’Italia non avrà un piano credibile di rientro del debito e di revisione della spesa”.
Infine, l’apoteosi: l’invito a cancellare ogni “pregiudizio antieuropeista”, come “l’ostinato pregiudizio contrario all’utilizzo del MES sanitario, invece più che mai necessario”, e a superare la cultura di diffidenza verso le imprese, compendiata in “Un paese che si ostina a non voler conoscere l’impresa preferendo coltivare in vasti settori un pregiudizio anti-industriale non va lontano”; “Un paese che ha esteso ancora una volta i poteri di Golden Power che nazionalizzava Alitalia e vuol fare lo stesso con l’Ilva, in entrambi casi senza un piano industriale; che rientra in settori come la produzione di gelati e le confezioni di abiti da donna definendoli strategici; che vuole tornare alla rete pubblica delle Tlc bloccando i privati del settore dimentica il rovinoso falò di risorse delle partecipazioni statali che obbligò alle privatizzazioni di inizio anni 90”.
Per chiudere in bellezza, farneticando di un blocco sociale dedito a “tentativi di vera e propria intimidazione delle imprese, per indurle a tacere”. (?)
In sintesi, Confindustria forza di propulsione, di progresso e di innovazione, frenata da parte del solito paese retrivo e incline alla conservazione di privilegi e rendite di posizione.
Confindustria che alza la posta, minacciando larvatamente il governo di una campagna contro di esso per raccogliere più di quanto il Conte Bis – che tutto è fuorché anti-impresa – le concederebbe comunque.
Poco è cambiato dopo il vertice tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil svoltosi il 7 settembre.
All’ordine del giorno il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro di numerose categorie, da tempo scaduti. (Fra cui quello del comparto alimentare e quello dei metalmeccanici).
“Da imprenditore sono ottimista – ha detto Bonomi – è iniziato un percorso per dare anche un segnale al Paese e alla politica, abbiamo la necessità di sciogliere alcuni nodi per dare risposte ad oltre 10 milioni di lavoratori, che devono avvenire in un’ottica che tenga conto della trasformazione che sta avvenendo”.
E ancora: “Questo Paese non può pensare che sia la tassazione del mondo del lavoro a mantenere tutto il resto. Dobbiamo avere il coraggio di pensare alla tassazione di altri comparti». Penso che questo Paese abbia la necessità di rivedere l’impianto fiscale ma che serva una riforma organica», mentre «ad oggi non ci è ancora chiara» l’idea del Governo, «il modello non è ancora chiaro. Non è chiaro come la si finanzia, si è parlato di tax expenditures ma non è chiaro come avviene il taglio. Auspicavamo una riforma più complessiva e ampia”.
Si rassegnino, i sindacati. Se qualche soldo otterranno, dovrà provenire da tagli fiscali, non dai risultati delle aziende. (Con l’eterno dubbio, però, se il modesto beneficio privato verrà – prima o dopo – vanificato dall’austerità pubblica). Stesso messaggio per il governo, affinché provveda.
E infine, a ribadire chi comanda: “Non abbiamo affrontato il tema della riduzione dell’orario lavoro, penso che non sia quella la strada come ha dimostrato la Francia di Mitterand. Bisogna pensare ad altre strade moderne, coniugare produttività a salario”.
A fine settembre, poco dopo essere stato ricevuto dal Capo dello stato, Carlo Bonomi è stato all’Assemblea di Confindustria 2020, con ospiti – fra gli altri – Giuseppe Conte e Stefano Patuanelli.
Lo slogan del Presidente degli industriali è stato – per tale assise – “Il coraggio del futuro”, articolato in “Serve un nuovo grande patto per Italia e abbinato a “sul Recovery Fund non si può fallire”.
Gli esponenti del governo si sono mostrati – al di là del protocollo per cui la cortesia è d’obbligo – quanto mai proni e accomodanti.
Il ministro dello Sviluppo Patuanelli: “Non possiamo far prevalere il senso della contrapposizione. La nostra strategia deve essere l’unità nazionale e se vogliamo tutti bene all’Italia è ora di lavorare insieme. Abbiamo bisogno di un paese dove sia semplice fare impresa. Stabilizzeremo e intensificheremo gli incentivi di Industria 4.0”. Un “sofferto” saluto allo spirito anti-impresa, misteriosamente svanito, e tanti applausi a seguire.
E il premier Conte: “Con lo stesso spirito di unità con cui abbiamo affrontato la sfida della pandemia, dobbiamo ora contribuire tutti insieme a vincere la sfida della ripartenza. Senza un nuovo patto pubblico privato basato sulla fiducia ogni sforzo risulterà vano”.
Bonomi, il quale poco prima aveva ricordato che “Aderire allo spirito Ue obbliga ad un’operazione verità sui conti pubblici”, che non cogliere il Mes è “un danno certo” e aveva scacciato qualsiasi ipotesi di salario minimo, ha dichiarato che quella del governo è stata “una apertura molto forte che non avevamo registrato fino ad oggi”.
Qualcuno aveva dei dubbi?
E così, qualche giorno dopo, all’Assemblea della Ucimu-Sistemi per Produrre, il leader confindustriale può fregiarsi del suo successo (evidentemente si tratta di uno al quale piace vincere facile): “Mi è stato detto che Confindustria ha cambiato idea. Patuanelli dice che vuole rendere più forte Industria 4.0, Conte dice che non vuole rinnovare Quota 100 e vuole rendere la Pubblica Amministrazione più efficiente. Gualtieri uguale. Allora chi è che ha cambiato idea?”
E per non farsi mancare niente: chiusura a doppia mandata rispetto a richieste di aumento salariale avanzata dai sindacati: “In questo momento è impossibile, siamo in un periodo di recessione. Si può puntare sulla previdenza complementare, sulla produttività. Dove c’è normale dialettica noi i contratti li rinnoviamo, dove si vuole fare i furbi, fare una forzatura e non rispettare le regole no. I patti si rispettano, poi si può dire che le condizioni siano cambiate, ma non ci sto quando ci definiscono furbetti. Il settore industriale ha il 57% dei contratti scaduti, il pubblico il 98%. E’ un problema di narrazione della questione“. (Furberie, forzature, mancato rispetto di regole e di patti? Capisca chi può! Chiedere un adeguamento salariale quando si rinnova un contratto scaduto da tempo è violare delle regole? E cosa c’entrano qui i contratti del settore pubblico, sui quali – ma per altre ragioni – vi sarebbe molto da dire?).
Ecco cosa ci attende per i restanti mesi dell’anno in corso, del prossimo e chissà ancora per quanti altri. Ibernazione salariale. Pubblica amministrazione sempre più ancella degli interessi privati e spesa per investimenti pubblici anch’essa dedicata a opere e infrastrutture gradite agli industriali.
Insomma, anche questa crisi dovrà essere pagata – soprattutto – dai lavoratori.
Per chiudere: come prima di lui il Presidente Boccia – che aveva sollevato un pelago di polemiche per delle modestissime norme le quali ponevano qualche limite ai contratti precari –, anche l’attuale capo della Confindustria teme, soprattutto, di vedersi scalfire l’immenso potere negoziale acquisito nei confronti dei sindacati. Questione di potere, non di razionalità economica.
Persistono gli assunti che l’assenza di rigidità nel mercato del lavoro determini la capacità assunzionale delle imprese e, a seguire, la ripresa dell’occupazione; che la spesa dello stato sarebbe inefficace, eccettuata quella che va a profitto di impresa; che l’Europa ci salverà, dunque il debito contratto con il MES è buono e giusto, mentre quello restante è un fardello gravante sui giovani e, inoltre, potrebbe comportare il rischio di un extratassazione su Bonomi & C.
Quello che fa più specie non è più, ormai, la constatazione empirica – anche recente – del fallimento delle politiche adottate su tali presupposti, quanto piuttosto che tutti i governi, incluso quello in carica, continuino a prestarvi fede.