Quando si parla del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, stilato da Mario Draghi e dai suoi tecnici per l’attuazione del programma Next Generation EU in Italia, una certa frangia mediatica e politica si esprime presentandola come un fiume di risorse finanziare concesse dalla generosa Europa al nostro Paese, con espressioni come “nuovo Piano Marshall” e altre formule abbastanza retoriche e approssimative. In primis, basti pensare che negli USA, il governo Biden ha lanciato un piano di ripresa di 6.000 miliardi di dollari, al fronte dei quali i 750 miliardi di euro del Recovery europeo appaiono come una piccolezza. Siamo di fronte ad una distribuzione di risorse su 3 titoli: il primo è quello specifico relativo al dispositivo di ripresa e resilienza, e sono 191 miliardi, poi i fondi aggiuntivi del React Eu ovvero fondi di coesione aggiuntivi che vanno alle regioni più povere d’Europa, che fanno parte delle spese comunitarie da alcuni anni, con l’aggiunta di 31 miliardi potenziali che lo Stato italiano può mettere in campo attingendo ai mercati finanziari, indebitandosi, come ha fatto nel corso del 2020 quando sono state raccolte risorse come gli oltre 130 miliardi di euro che hanno finanziato le misure di contenimento della crisi, di sostegno alle imprese e alle famiglie (i vari bonus dati dal Governo Conte prima e Draghi poi, e così via). Nel complesso, 236 miliardi di euro, da spendere in 6 anni, tranne quelli del React Eu che valgono per il biennio 2021-2022.
Il primo punto da fissare immediatamente è che si tratta di risorse che l’Ue non concede gratuitamente.
Ma facciamo un passo indietro tornando alla precedente crisi finanziaria, quella dei subprime americani che in Europa si tradusse in crisi dei debiti sovrani. Quello dell’Ue fu un approccio austeritario: furono chiusi i buchi creati dalle banche e il conto fu portato ai cittadini perché gli Stati dovettero intervenire con un esborso notevole di risorse per evitare il fallimento delle grandi banche che avrebbero mandato in aria l’intero sistema economico e finanziario. Dunque furono imposte agli stati membri politiche molto severe dal punto di vista del contenimento della spesa, soprattutto ai paesi che avevano fatto ricorso ad esempio al Meccanismo Europeo di Stabilità, quindi la Grecia, l’Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia, così abbiamo subìto la pressione delle istituzioni europee per politiche fiscali molto restrittive. Dunque in quell’occasione l’Europa impose austerità da un lato e riforme strutturali dall’altro.
Se la crisi del 2008 era una crisi scoppiata nel settore bancario, quella attuale nasce per cause pandemiche, ma comporta un impatto molto simile. Ma l’UE in questa occasione cambia registro, e agisce con una sostanziale novità: reperisce risorse sui mercati e li gira agli Stati sotto forma di prestiti a lungo termine con tassi agevolati o sotto forma di sovvenzioni vere e proprie. Quando infatti parliamo dei 191 miliardi del piano di ripresa e resilienza, 122 mld consistono in prestiti da restituire mentre 68 mld sono sovvenzioni. Questa è la grande novità: l’Europa si indebita essa stessa e gira queste risorse agli Stati che a loro volta dovranno, per buona parte, restituire. Questi fondi non sono dunque un regalo: uno degli elementi caratteristici di questo programma è che è incardinato nel cosiddetto “semestre europeo”, ovvero il ciclo di coordinamento delle politiche di bilancio a livello europeo, fatto di una serie di step nei quali l’Europa raccomanda vari parametri, adotta delle misure e può sanzionare gli Stati che escono fuori dai binari stabiliti dai trattati e dal fiscal compact, in particolare questi fondi non vengono erogati a prescindere dai vincoli di bilancio a cui gli Stati sono costretti a soggiacere. Attualmente siamo in un contesto di sospensione dei parametri per via di una moratoria temporanea per cui gli Stati non stanno badando alla regola del debito, del deficit, e dei saldi di finanza pubblica, però quei vincoli torneranno e nel piano è confermato in maniera chiara.
Attualmente l’Italia, per avere gli stati di avanzamento finanziati, dovrà ottemperare a quelle che saranno le prescrizioni della Commissione Europea per quanto riguarda la finanza pubblica e questo potrebbe comportare ingenti disagi poiché l’Italia in Europa è comunque tacciata di essere uno dei paesi col più alto debito pubblico, e se nei prossimi mesi anni ci fosse un inasprimento delle politiche restrittive da parte dell’Europa noi saremo chiamati a rendere conto di tutta la spesa in debito che fatto nel 2020 e per una parte nel 2021, quindi le risorse del PNRR sono subordinate al rispetto di questi parametri. Non solo, dopo le trattative del 12 luglio, è stato ufficializzato che per accedere a questi fondi l’Italia dovrà rispettare 528 condizioni (obiettivi di vario tipo categorizzati in “qualitativi” e “quantitativi”) ma essendo le riforme descritte in termini generali la valutazione dell’adeguatezza di quanto approvato richiederà un forte elemento di soggettività, e saranno eventualmente erogati in 10 rate fino al 2026.
Il secondo aspetto, o meglio, il prossimo vincolo, è dunque quello relativo alle cosiddette “riforme di contesto”, ed infatti è bene dire chiaramente che questo dispositivo non è un fondo elargito agli stati o un semplice programma di spesa, ma il PNRR è innanzitutto un piano di riforme. Quindi attraverso il PNRR il nostro paese dovrebbe realizzare una serie di riforme di contesto che servono a riorganizzare alcuni ambiti e settori della vita economica, sociale, amministrativa, istituzionale del paese, che riguardano la P.A., la giustizia, il mercato del lavoro, il fisco, i servizi pubblici essenziali, tutti gli ambiti che contano nella vita di una comunità. La filosofia di fondo che sta alla base del documento è una filosofia neo-liberista, o meglio “ordo-liberista”, in quanto lo stato non scompare, ma viene posto al servizio del mercato. Nei capitoli finali del piano si parla chiaramente di “impatto delle riforme” e possiamo intuire dove il governo Draghi vuole portare il Paese. Per misurare l’impatto del piano, si terrà contro di un indice confezionato dall’OCSE alcuni anni fa, ovvero l’Indice di regolamentazione del mercato dei prodotti, attraverso il quale si andrà a valutare quanto il mercato nel nostro Paese è diventato concorrenziale. L’equazione è semplicissima: ad alti livelli di presenza dello stato in economia, quindi ad alti livelli di regolamentazione del mercato, corrispondono bassi livelli di competitività e concorrenzialità del sistema. Dunque l’idea di base è che l’Italia deve recuperare un gap che la separa da altri paesi d’Europa.
Se consideriamo la relazione al Piano firmata dallo stesso Draghi, si afferma che l’Italia negli ultimi 20 anni è cresciuta meno degli altri paesi europei (a fronte di una crescita media dell’Italia del 7,9% negli ultimi 20 anni, la Germania e la Francia sono cresciute del 30-40%), quindi l‘attuale Premier sostiene che l’Italia deve recuperare questo gap, e per riuscirci deve essere in grado di crescere e competere di più, e per crescere e competere maggiormente bisognerebbe ridurre il peso del settore pubblico in economia, quindi la presenza dello stato, e ridurre i livelli di regolamentazione del mercato, avvalendosi di questi strumenti di valutazione che saranno necessari per valutare l’impatto che le riforme avranno per questi obiettivi.
L’Italia è entrata nella pandemia con una situazione sociale non proprio rosea, con una società fortemente polarizzata per quanto riguarda i redditi, c’è stato uno spostamento notevole di redditi verso l’alto in questi anni e siamo quindi entrati nella pandemia con forti livelli di diseguaglianza e di precarietà nel lavoro che ha raggiunto livelli inaccettabili. Questo avrebbe richiesto che le risorse dell’Europa venissero utilizzate per spingere la crescita ma anche per conseguire obiettivi di maggiore giustizia sociale. Ma qui il rischio è un altro: negli anni del cosiddetto Fordismo ci fu un elemento che ha caratterizzato la crescita dei paesi occidentali che è la mediazione sociale-istituzionale, che ha fatto sì cha l’accumulazione del capitale andasse d’accordo con la coesione sociale e con il benessere diffuso. Da questo tipo di impostazione siamo usciti già da tempo, però questo PNRR va a compiere passi ancora più veloci verso l’allontanamento da quel quadro che aveva caratterizzato un periodo di maggiore equilibrio e maggiore armonia dal punto di vista sociale ed economico.
Le questioni come la precarietà e le diseguaglianze sono trattate davvero in maniera marginale, ripetendo in continuazione i mantra della competitività, della concorrenza, della produttività, perché è questo lo scopo: fare dell’Italia un paese più concorrenziale, più competitivo, puntando sull’aumento della produttività, senza tenere conto di tutto quello che queste politiche già sperimentate hanno prodotto nel corso degli anni: rendere più ricco chi è già ricco, rendere più povero chi è già povero.
Apriamo allora un primo punto su quella che è l’impostazione di società che si vuole imprimere al nostro paese nel PNRR.
Nel piano è detto che bisogna favorire efficienza e competitività, concorrenza nel settore dei trasporti come nel settore della gestione dei rifiuti o anche del ciclo integrato dell’acqua. Da poco abbiamo “celebrato” la ricorrenza del referendum del 2011 attraverso cui 26 milioni di italiani (il 95% dei votanti) hanno sancito l’acqua come bene comune e la sua gestione pubblica e partecipata, ma si persevera con il tradimento di quella volontà popolare: lì è scritto in maniera esplicita che lo scopo delle riforme in questo ambito sarà quello di avviare processi di industrializzazione del ciclo integrato dell’acqua favorendo la nascita di organismi, enti, strutture, società miste pubblico-private per conseguire obiettivi di efficienza e di economicità nel settore. Addirittura nel piano si afferma che lo scopo di questi processi di industrializzazione dovrebbe essere quello del conseguimento di economie di scala. Chi conosce un po’ di rudimenti di economia sa che parlare di economia di scala a proposito di acqua pubblica significa voler affidare la gestione di questa risorsa alle grandi multinazionali, ai grandi gruppi economici e finanziari, che possono conseguire obiettivi di riduzione dei costi a partire proprio dalla loro dimensione, quindi non si va nella direzione di una ripubblicizzazione del ciclo idrico integrato, che era l’unica soluzione dopo un pronunciamento popolare così netto e dopo tante battaglie combattute nei territori, ma un tradimento sostanziale anche da parte di movimenti, partiti, che di questo argomento hanno fatto la loro bandiera e ora accettano tutto questo nel PNRR senza battere ciglio.
Molti benpensanti credevano che saremmo usciti da questa pandemia meglio da come ci siamo entrati e invece se non ci sarà una mobilitazione adeguata ne usciremo peggio, con una società ancora più diseguale dominata da logiche che sono quelle del profitto, della competizione a tutti i costi, del dogma unico e sacro della concorrenza.