Un caro amico, economista presso la Commissione europea, mi informa che è stato varato un nuovo programma di monitoraggio del mercato del lavoro europeo denominato “Barometro europeo del mercato del lavoro” (qui). L’iniziativa è stata lanciata dalla rete dei centri europei dell’impiego con l’immagine di tre barometri che, come quelli veri, segnano il tempo del mercato del lavoro: il tempo volge al peggio quando la disoccupazione aumenta o l’occupazione cala, il tempo migliora quando il mercato del lavoro è in ripresa.
Il progetto prevede che i centri dell’impiego, come una rete di radar metereologici, trasmettano le minime variazioni delle cifre del mercato del lavoro che saranno poi sintetizzate attraverso indici aggregati. Capire per agire informati, si dice, e sapere in anticipo se nel mercato del lavoro pioverà è utile per decidere se dobbiamo uscire con l’ombrello. Sembra una buona idea, ma il mio amico è perplesso. Con ragione, mi viene da dire.
Intanto perché tracciare l’andamento del mercato del lavoro con un barometro, ancorché fatto di percentuali che vanno su e giù, lascia filtrare l’obliqua rappresentazione dei guasti del mercato del lavoro come fenomeni naturali che possiamo forse prevedere, ma non possiamo veramente contrastare. Questo è il punto di vista di Robert Lucas, premio Nobel dell’economia, voce eminente della scuola liberale: non c’è nessuna ragione, aveva scritto molti anni fa, perché a priori dovremmo preferire un tasso di disoccupazione del 2% rispetto ad uno del 9%, dato che la disoccupazione riflette una molteplicità di determinanti ed è per questo un fenomeno complesso, un “fatto della vita” che può essere modificato solo a costi proibitivi. E’ un punto di vista così diffuso che taluni economisti hanno persino inventato il termine “tasso di disoccupazione naturale” per definire la disoccupazione persistente, rappresentandola, appunto, come “qualcosa che capita”, come la nebbia o i temporali.
E poi perché la focalizzazione sui movimenti di breve termine del mercato del lavoro, pure opportuna, rischia di farci perdere di vista le tendenze di fondo. Per capire. Il 20 ottobre 2020, in una scala da 90 a 110, il barometro segna 98,7 – un po’ di bassa pressione dopo il maltempo della primavera dei lockdown, ma, grosso modo, il tempo è neutrale, né buono né cattivo – e se la lancetta resterà più o meno invariata, la situazione del mercato del lavoro sarà stabile. D’accordo, ma rispetto a cosa? Che cosa significa, in particolare, il valore neutrale di 100 attorno al quale il più recente rapporto ci dice che “la situazione si sta stabilizzando”? (qui).
Le cifre per rispondere a questa domanda le conosciamo, ma vale la pena ricordarle. I dati Ocse dicono che il tasso di disoccupazione nella zona euro è stato pari, in media, al 9,3 per cento tra il 1990 e il 2019 e che solo in cinque anni su trenta il tasso di disoccupazione è sceso sotto l’8 per cento. Nei vent’anni tra il 2000 e il 2019 i disoccupati nella zona euro sono stati, in media annua, poco meno di 15 milioni. Conosciamo anche le cifre dell’Italia: nei 39 anni tra il 1981 e il 2019 il tasso di disoccupazione è stato in media pari a circa 10 punti percentuali, solo in cinque anni è sceso sotto l’8 per cento. L’elevata disoccupazione è a tal punto diventata parte del nostro paesaggio sociale che a metà del 2019 i giornali italiani quasi celebravano la disoccupazione al 9,5 per cento perché era la cifra minima rispetto agli otto anni precedenti (qui).
Se questo è così, tenere d’occhio il barometro può forse restituire un’immagine di scrupolosa attenzione per l’andamento dei dati, giorno per giorno, ma ci fa perdere di vista l’elefante nella stanza, ovvero la persistenza della elevata disoccupazione in un arco temporale di decenni. E’ un esito che non dipende certo dalla nostra imperfetta comprensione dei mercati del lavoro o dall’insufficienza dei nostri strumenti di misura, bensì dal fatto che il pieno impiego non è stato negli scorsi decenni, e non è oggi, tra le opzioni della politica economica, né in Europa, né in Italia.