Trent’anni fa – il 7 febbraio 1992 – a Maastricht, in Olanda, è stato stipulato il noto Trattato di istituzione dell’Unione Europea. Con il Trattato, si è dato vita a un regime giuridico ed economico che ha notevolmente condizionato i Paesi europei, con evidenti ripercussioni sociali.
Tuttora, quando si parla di Europa, l’aspetto ideale finisce con il prevalere sulla dura realtà. Da un punto di vista ideale, infatti, la suggestione di una Europa unita rievoca una ritrovata fratellanza fra popoli diversi, i quali si erano aspramente combattuti per la supremazia continentale durante le due guerre della prima metà del ‘900. Si tratta di un aspetto rimarchevole e apprezzabile ma, a dispetto delle suggestioni, da un punto di vista economico i vantaggi di una più stretta integrazione sono stati inferiori rispetto ai costi della perdita di autonomia delle politiche nazionali. I costi maggiori sono stati quelli ricaduti sul lavoro dipendente salariato. I vantaggi sono andati all’industria esportatrice e al settore finanziario. Uno degli aspetti più controversi, a lungo dibattuto, è stato la creazione della moneta unica, l’euro. Vigeva ai tempi di Maastricht – e vige ampiamente tuttora – una temperie culturale che vede nel combinato di concorrenza e libero mercato il bene supremo e il fine ultimo delle società. Su questo aspetto i capi di stato e di governo europei si sono dunque concentrati. Nella prima fase del processo di unione monetaria (1993) essi si sono posti l’obiettivo della liberalizzazione dei movimenti di capitale fra i Paesi già inclusi nel mercato unico. Nella seconda fase lo scopo è stato quello della convergenza monetaria (1994). Nella terza fase si è passati alla fissazione irreversibile dei tassi di cambio fra le diverse valute, in vista dell’entrata in vigore dell’euro (1999-2002). In questa fase è stata anche istituita la Banca Centrale Europea. Per accedere alla fase finale del processo, i singoli stati membri dovevano rispettare determinati criteri di convergenza. (L’idea – tutt’altro che solidaristica e che si rivelerà drammatica durante la crisi dell’euro – è quella che non si devono condividere rischi nè risorse fra i Paesi membri).
I criteri comprendevano:
- un dato livello del tasso di inflazione – che non doveva sopravanzare l’1,5% la media dei tre tassi di inflazione minori dell’allora SME, il Sistema Monetario Europeo;
- un tasso di interesse non oltre il 2% la media nei tre Paesi a più bassa inflazione;
- assenza di svalutazioni monetarie nei due anni precedenti;
- disavanzo del bilancio pubblico non superiore al 3% del Pil;
- debito pubblico non eccedente il 60% del Pil.
Sulla scia della teoria (ormai maggioritaria) e dell’esperienza degli anni ’70, il quadro è quello di un sistema caratterizzato dall’ossessione per le tensioni inflazionistiche. Sul solo controllo dell’inflazione è infatti stata fondata la missione statutaria della BCE. Secondo il credo fideistico dei tempi di Maastricht, una banca centrale indipendente dal potere politico e stati nazionali imbrigliati sul piano fiscale avrebbero costituito il contesto ideale per assicurare il benessere generale. Inoltre, i Paesi europei arretrati avrebbero sperimentato una convergenza verso i livelli di ricchezza di quelli più sviluppati. Tutto sarebbe andato per il meglio.
Bastava sgombrare il terreno dalle interferenze dell’inefficiente potere pubblico, con le sue spese statali inflazionistiche e la proprietà pubblica di aziende nei settori strategici. Infine, via i controlli nazionali e via i tassi di cambio. A tutto avrebbe pensato un ampio e libero mercato. (I criteri di Maastricht sono stati successivamente resi più stringenti con il Trattato di Amsterdam (1997) e in piena crisi, con il Six Pack e con il Fiscal Compact, accentuandone il carattere di deflazione salariale). Quali effetti sono discesi da questo quadro è ormai storia. La crescita dei decenni precedenti è sfumata. La disoccupazione è divenuta un fenomeno strutturale. Le disuguaglianze sociali si sono approfondite. L’Unione Monetaria Europea, con i suoi vincoli e la sua mancanza di solidarietà, ha aggravato la tempesta finanziaria globale iniziata nel 2008. Gli stati membri non hanno potuto contare sui tipici strumenti anticiclici – monetari e fiscali – di cui tutti i Paesi al mondo sono normalmente dotati mentre la struttura sovranazionale europea, per scelta ideologica e vizio di origine, non ne disponeva di propri.
I Paesi periferici dell’unione, colpevolizzati anche tramite associazioni a idee di forte contenuto simbolico, sono stati lasciati languire nel vortice dei tagli allo stato sociale. Sul punto di rottura, nella seconda metà del 2012 è finalmente intervenuta in modo eterodosso la Bce, permettendo la sopravvivenza – finora garantita – dell’euro. Solo di recente, durante la pandemia, si è aperta una crepa nella granitica architettura europea. Perlomeno, si è giocoforza iniziato a prendere coscienza del concetto che l’intervento pubblico non è inutile. Dal risultato del dibattito sulle adombrate varie prospettive di riforma dipenderà il futuro dell’Unione Europea. Se i più conservatori – complice anche una pretestuosa strumentalizzazione dell’inflazione post-pandemica – riusciranno a prevalere, si presenteranno ancora tempi bui. Soprattutto per i lavoratori.