Quanti di noi di fronte a un discorso incomprensibile hanno pensato: questo per me è arabo. Potremmo immaginare che il motivo è che la lingua araba è una lingua complicata ma dall’altra parte esistono molte altre lingue difficili. Inoltre la difficoltà è un concetto relativo, non certamente assoluto: non so se una qualsiasi delle lingue dell’estremo oriente sia più o meno difficile di una delle tante lingue che parlano a Islamabad o a Riyad. Nello spazio e nel tempo la percezione della difficoltà di una lingua varia moltissimo, anche dove meno ce lo potremmo aspettare. I francesi usano una locuzione identica a quella italiana per dire che qualcosa è incomprensibile, ovvero c’est de l’arabe, ma hanno trovato anche versioni alternative, come c’est de l’hébreu (è ebraico) / c’est du chinois (è cinese) / c’est de l’iroquois (è irochese). Gli inglesi invece hanno un’idiosincrasia per il greco e utilizzano l’espressione this is Greek to me.
Nonostante tutte queste frastagliate coste linguistiche, dalle quali, ovunque andiamo, percepiamo sempre una certa distanza, ci sono persone che riescono sempre a tracciare la rotta. Planando dall’alto, mettono una lente d’ingrandimento tra noi e il mondo per farcelo vedere più chiaramente e più vicino. Una di queste è sicuramente Nico Piro, inviato speciale del Tg3 e della Rai, specializzato in aree di crisi e di conflitto, che è diventato uno dei massimi esperti di Afghanistan in Italia e nel mondo. Nella sua ultima fatica “Kabul, crocevia del mondo” edito dalla casa editrice People, ricostruisce un racconto che mette in ordine i fatti realmente accaduti negli ultimi due anni di guerra nelle terre del Grande Gish: quella che nell’immaginario americano doveva essere una guerra lampo ma che invece ha portato quattrocentomila morti in giro per Medio Oriente e lasciato molte domande senza risposta. Una delle più importanti se l’è posta a teatro nel 2016 anche Giuliana Musso che nel magma di sentimenti, filtrati da rabbia e dolore materno, si chiede: “Ma cosa ci siamo andati a fare in Afghanistan? (…) ci sono andati tutti a fare la guerra in quel posto maledetto! Prima gli inglesi, poi i russi e adesso gli americani, e noi con loro”. Se un paese ha ricevuto il funesto soprannome di cimitero degli imperi ci sarà un perché, o no? Nico Piro invece lo sa benissimo che cosa ci va a fare laggiù: un lavoro pericoloso per testimoniare che dietro multiformi interessi economici e politici, drogati da continue menzogne, c’è la stupidità di un conflitto più lungo della Seconda Guerra Mondiale: una carneficina che ha distrutto quello che il tempo ha pazientemente realizzato in molti secoli. Con il solo voto contrario della democratica Barbara Lee, opposta alla smisurata guerra di reazione all’attacco dell’11 settembre, il parlamento americano ha consegnato nelle mani del presidente Bush “una sorta di infinito libretto degli assegni bellici in bianco”, che per oltre vent’anni è stato insaziabilmente consumato. Il conto pagato è inaccettabile: solo “dal 2010 al 2020 si stima che tra Afganistan, Pakistan, Yemen e Somalia ci siano stati 14.040 attacchi, con un totale di vittime comprese tra 8.858 e 16.901 per un numero di civili uccisi compresi tra 910 e 2.200, di cui fino a 454 bambini”. L’Afghanistan è oggi un paese illuso e abbandonato, riconsegnato a caro prezzo nelle mani degli studenti coranici che lo hanno ferocemente plasmato a loro somiglianza. Pensato e giocato a migliaia di chilometri di distanza come in un videogame, le operazioni militari sono diventati dati, calcoli, linguaggio macchina, ripugnanti metafore, come nel caso della classificazione data alle operazioni mortali post ritiro 2021: over the orizon. Nell’intenso libro precedente che sembrava quasi una ricerca antropologica o sociologica, Corrispondenze afgane. Storie e persone in una guerra dimenticata, l’autore ci ha restituito la quotidianità di un reporter di guerra rincuorato dalla nobile forza d’animo di un popolo verso il quale nutre, ricambiato, un grande affetto: “Sono felice di lavorare con te- gli dice ad un certo punto Ahamad- insieme facciamo anche storie divertenti come questa, non ci occupiamo solo di guerra”. In queste più recenti pagine Nico Piro ricostruisce passo dopo passo le ultime settimane di un conflitto e la rinascita di un Emirato lacerato al suo interno, senza una macchina statale funzionante e rapporti internazionali decenti.
Ma in Afghanistan niente è quello che sembra, niente è semplice come appare. Come ci suggeriscono le parole di Cormac Mc Carthy, autore del romanzo La Strada: “una cosa può essere un’altra cosa”. Ed ecco quindi che tutte queste cose raccontate nei lunghi e appassionati reportage, tutti questi segni sulla carta, diventano come le pitture rupestri nelle caverne, imitazioni e descrizioni dei paesaggi la fuori: auspici per la benefica trasformazione dello spazio mentale della comunità che li ha creati. Tutto sommato è forse questo, il messaggio nella bottiglia che la risacca di questi tempi cupi ci ha consegnato attraverso lo sguardo e la penna di Nico Piro.