Durante una campagna elettorale, si sa, non possono mancare le promesse. In proposito, lo schieramento di centrodestra è tornato sul tema della flat tax (imposta piatta). L’imposta piatta di cui si tratta è uno schema di imposta sul reddito con una sola aliquota. La flat tax ha la caratteristica di essere proporzionale, perché presuppone che soggetti poveri e soggetti benestanti versino all’erario un’identica percentuale del proprio reddito. Nel vigente sistema Irpef vengono invece applicate aliquote diverse, crescenti per scaglioni di reddito. Al crescere dell’imponibile cambia lo scaglione di appartenenza e, quindi, la percentuale di imposta su di esso. A basi imponibili diverse si applicano, quindi, aliquote diverse. Il sistema è, cioè, progressivo.
Va da sé che, in caso venisse introdotta, l’incidenza dell’imposta piatta diminuirebbe sui redditi più alti, avvantaggiandoli. Molto probabilmente ne risulterebbe compromesso il gettito tributario, costringendo a decurtare la spesa per i servizi pubblici anche se, i proponenti, sostengono che il gettito incrementerebbe. (La flat tax si ripagherebbe da sé).
Dunque, l’introduzione generale della flat tax nella sua versione “pura” sostituirebbe l’attuale progressività – il prelievo sul reddito che cresce all’aumentare dello stesso – con la proporzionalità dell’imposta. Per rendere il sistema meno iniquo e fargli riacquistare una qualche progressività, bisognerebbe perlomeno introdurvi un meccanismo di deduzione – ossia una riduzione del reddito imponibile prima dell’applicazione dell’aliquota (oppure un meccanismo di detrazione, una riduzione “a valle” dell’imposta dovuta).
Ma anche nel caso della deduzione, l’elemento della progressività calerebbe all’aumentare del reddito, fin quasi a vanificarsi a livelli di reddito particolarmente alti, tornando sostanzialmente alla proporzionalità. (Dedurre 5.000 euro da un reddito di 1 milione non fa praticamente differenza sull’Irpef versata, dedurre 5.000 euro da un reddito di 10.000 euro significa pagare l’Irpef solo su 5.000 euro).
Anche con il correttivo della deduzione, che consentirebbe alla riforma di superare il vaglio di costituzionalità, il sistema sarebbe comunque molto meno progressivo del sistema attualmente vigente. E la situazione è resa più preoccupante dal fatto che le proposte politiche avanzate dai partiti del centrodestra ipotizzano aliquote piuttosto basse, di gran lunga inferiori all’aliquota Irpef massima oggi vigente, pari al 43%.
Il vantaggio per i redditi elevati sarebbe enorme (un discorso a parte meriterebbe l’eteroclita proposta di Fratelli d’Italia, la quale darebbe probabilmente adito a vari opportunismi e distorsioni, perfino peggiori di quelli già praticabili). Inoltre, dal punto di vista macroeconomico una buona progressività riduce le fluttuazioni di reddito, perché implica un prelievo fiscale maggiore quando il reddito aumenta ma toglie meno risorse, lasciandone di più in mano alle famiglie, quando il reddito diminuisce. Si tratta di uno dei cosiddetti stabilizzatori automatici. Indebolirlo rende il Paese maggiormente vulnerabile alle crisi economiche.
Infine, la formula magica “la flat tax si ripaga da sé” con la crescita, ricade nel solco della filosofia economica neoliberista, laddove essa predica una presunta virtù dell’offerta privata, sgravata dall’ingerenza della tassazione pubblica. In conclusione, il messaggio culturale che si dà al paese è quello di un’ulteriore spinta all’individualismo neoliberista (come se ne ravvisasse la necessità). L’implicazione teorica è che la ricchezza viene sempre guadagnata meritatamente, in un mercato giusto e all’insegna dell’equità.
Chi è povero e svantaggiato lo è per causa propria. Resta da giustificare come mai, dopo anni e anni di insuccessi della politica neoliberista, programmi fondati su simili impostazioni di pensiero riaffiorino a ogni tornata elettorale. Eppure il Paese di oggi è economicamente meno in salute e più diseguale di quanto non fosse trenta anni fa, quando il neoliberismo anche da noi si è affermato.
Taluni ritengono, dopotutto, che applicare la tassa piatta sull’Irpef non sarebbe in sé incostituzionale. Ricordano che è il complessivo sistema tributario a dover essere progressivo, non una singola imposta.
Allora, la flat tax sull’Irpef sarebbe attuabile a patto che altre imposte fossero fortemente progressive e compensassero l’effetto distributivo a danno dei redditi bassi. Purtroppo, così non è.
Le altre imposte sono proporzionali e, comunque, nel caso dell’Irpef si tratta dell’imposta più rilevante – anche in termini di introiti fiscali –, il cui concorso è necessario al fine dell’implementazione di un sistema progressivo. L’Irpef contribuisce al 40% delle entrate del Paese, 172,5 miliardi nel 2019. (L’Irap dà circa 25 miliardi, L’Ires 35, l’Imu circa 20).
L’Irap (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) è un’ imposta che ricade su professionisti, imprenditori o, più in generale, su coloro che svolgono delle attività produttive; esentati sono invece il settore agricolo e la pesca; il calcolo dell’Irap avviene sul guadagno netto, applicando un’aliquota proporzionale stabilita dallo Stato ma variabile, entro un margine di oscillazione, da parte delle regioni:
a) aliquota ordinaria 3,90 %
b) aliquota per le imprese concessionarie diverse da quelle di costruzione e gestione di autostrade e trafori 4,20 %
c) aliquota per banche, altri enti e società finanziarie 4,65 %
d) aliquota per imprese di assicurazione 5,90 %
e) aliquota per amministrazioni ed enti pubblici 8,50 %
Fonte: Agenzia delle entrate
Le Regioni e le Province autonome possono variare le aliquote fino ad un massimo di 0,92 punti percentuali, differenziandole per settori di attività e per categorie di soggetti passivi.
L’Ires (l’Imposta sul reddito delle società) invece riguarda solo le aziende, in particolare le società di capitali (S.r.l, S.p.a e S.a.p.a) che svolgono un’attività in Italia, anche se non residenti. L’aliquota è fissata, dall’anno 2017, al 24% (mentre in precedenza era al 27,5%), ed è applicata sull’utile d’esercizio totale dell’impresa, con la possibilità di dedurre alcune spese.
L’Iva (Imposta sul valore aggiunto) è la principale imposta indiretta. Non può dirsi progressiva, dato che colpisce qualsiasi scambio di beni e servizi indipendentemente dalle condizioni reddituali dell’acquirente. (L’Iva vale 124 miliardi di entrate).
Altrettanto vale per le imposte “minori”, ad es. di registro, di successione, di bollo.
L’IMU (Imposta municipale propria) è un’imposta patrimoniale che si calcola applicando alla base imponibile l’aliquota fissata per la particolare fattispecie dell’immobile ad essa soggetto. La base imponibile è costituita dal valore dell’immobile determinato nei modi previsti dalla legge. Ne sono esentati gli immobili destinati ad abitazione principale.
Quando è stata attuata la riforma tributaria del 1973, l’Irpef era calcolata – sui redditi ottenuti in Italia o all’estero dai residenti (e solamente in Italia dai non residenti), senza l’applicazione di alcuna detrazione o deduzione.
La sua progressività era conseguita dall’applicazione di ben 32 differenti fasce. Lo scaglione più elevato pagava un’aliquota del 72%, in modo da risultare più onerosa al crescere del reddito e favorendo quindi le fasce di popolazione più deboli.
Nel corso degli anni si è proceduto aggiungendo di volta in volta deduzioni e detrazioni applicabili, nonchè riducendo il numero di fasce di reddito. Al netto del ginepraio di deduzioni e detrazioni, il sistema risulta ora leggermente semplificato, ma anche meno progressivo. L’aliquota massima si è assestata al 43%.
A riprova di quanto il neoliberismo sia operante, oltre a tenere in considerazione il fatto che il fattore della progressività dell’Irpef è venuto negli anni gradualmente ad attenuarsi, se si volge lo sguardo alla base imponibile si constata che non tutte le categorie di percettori di reddito pagano l’Irpef. Oggi l’Irpef si applica in larghissima misura solo ai redditi di lavoro dipendente, autonomo e alle pensioni. In particolare, l’82% del gettito dell’imposta deriva da lavoro dipendente e da pensioni. (I cui percettori sono Impossibilitati, fra l’altro, a evadere).
Ai redditi di capitale e immobiliari si applicano, in prevalenza, regimi sostitutivi di ampio favore. Anche ciò va a incidere pesantemente sulla progressività del regime impositivo. Un vero e proprio sgarbo agli svantaggiati è anche il cosiddetto regime forfettario sulle “Partite Iva”, con aliquota piatta al 15% fino a 65.000 euro di reddito imponibile – defalcati, cioè, i costi di gestione. (Peggio che mai, ora si pensa di estendere fino a 100.000 euro di reddito questo vituperio). Questa particolare flat tax potrebbe inoltre essere un fattore che alimenta il fenomeno delle “false Partite Iva”, ossia quella forma di lavoro formalmente autonoma, ma che cela una collaborazione nella quale si riscontrano gli elementi della subordinazione e della continuità.
Anche le rendite finanziarie rientrano nei regimi sostitutivi: 26%, ad esclusione dei titoli di stato, al 12,5%. Si tratta di uno degli “inconvenienti” dettati dalla mobilità internazionale dei capitali.
La cedolare secca sugli affitti è un ulteriore regime sostitutivo di favore, che consiste nel pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali per la parte derivante dal reddito dell’immobile. In più, per i contratti sotto cedolare secca non si versano l’imposta di registro e l’imposta di bollo, ordinariamente dovute per registrazioni, risoluzioni e proroghe dei contratti di locazione. L’imposta sostitutiva si calcola applicando un’aliquota del 21% sul canone di locazione annuo, ma è prevista un’aliquota ridotta al 10% per i contratti di locazione a canone concordato stipulati in comuni con carenze di disponibilità abitative e nei comuni ad alta tensione abitativa individuati dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica).
In questa campagna elettorale, nessuno dei contendenti pensa a programmi orientati a come rendere più equo il sistema fiscale nel suo complesso. Tutti sono colti, ancora una volta, dalla smania liberista di dover “abbassare le tasse”. Una cosa è certa. Nel prossimo parlamento i ceti popolari non saranno adeguatamente rappresentati.
La maggior forza “di sinistra” si limita – agendo di conserva – a denunciare la mancanza di progressività delle proposte di flat tax avanzate dalle destre.
Niente di strano, in fondo, per un partito politico bramoso di far rappresentare la sinistra da un candidato come Carlo Cottarelli.