L’otto dicembre 1991, i presidenti delle Repubbliche (allora sovietiche) della Russia, della Bielorussia e dell’Ucraina – Boris El’cin, Stanislaŭ Šuškevič e Leonid Kravčuk – firmarono un documento che dichiarava la cessazione dell’Unione sovietica quale soggetto di diritto internazionale e quale realtà geopolitica. L’iniziativa era rimasta nell’ombra, il che farà poi pensare a una congiura.
La congiura di Minsk era avvenuta quando ormai la maggior parte delle quindici repubbliche che la componevano avevano proclamato la loro indipendenza dall’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Il potere centrale dell’Unione aveva perduto il controllo della situazione.
La vittima predestinata della congiura altri non poteva essere che Michail Sergeevič Gorbačëv, ultimo Segretario del Partito comunista sovietico nonché primo e ultimo Presidente dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, scomparso martedì 30 agosto 2022.
Essendo stato fra i protagonisti del processo che ha condotto alla dissoluzione dell’Urss e alla fine della ‘Guerra fredda’, gli storici e gli studiosi di relazioni internazionali hanno inevitabilmente cominciato a occuparsi di Gorbačëv quando egli era ancora in vita.
Osannato in Occidente – ma meno in patria –, Gorbačëv può essere considerato un sincero riformatore del sistema politico, economico e sociale sovietico. Ha dato la stura a una sequenza di eventi drammatici, il cui esito si è rivelato radicalmente diverso rispetto a quanto egli stesso aveva prospettato. Sfuggendogli di mano, tali eventi lo hanno sopravanzato, decretando nel volgere di pochi anni la sua fine politica.
Michail Sergeevič Gorbačëv nacque il 2 Marzo 1931 a Privolnoye, nella regione di Stavropol,
Russia del sud. Nel 1970 era al vertice del partito nella sua regione. Nel 1978 fu chiamato dal partito a Mosca per curare il dipartimento dell’agricoltura e nel 1980 faceva parte del Politburo, il centro del potere sovietico.
Gorbačëv stava così salendo lungo le posizioni di potere che lo avrebbero portato alla nomina di Segretario generale del Partito comunista. Dopo avere scalato le gerarchie del partito (veniva dalla cerchia di Yuri Andropov, successore di Leonid Brezhnev) Michail Sergeevič Gorbačëv ebbe accesso alla massima carica nel 1985 – a 54 anni – e subito si distinse per un certo piglio rinnovatore degli apparati di partito e di governo.
Inoltre, già a novembre dello stesso anno incontrò il presidente della storica potenza avversaria, il presidente americano Ronald Reagan. (Reagan aveva, soltanto due anni prima, definito l’Urss “impero del male”).
Pur permanendo nel solco del socialismo, l’ultimo segretario dell’onnipotente Pcus ambiva arditamente a realizzare nientemeno che un nuovo ordine sovietico. Nel pantano della cosiddetta stagnazione Brezhneviana, Gorbačëv mirava a trasformare l’Unione sovietica da sistema chiuso e repressivo in un sistema aperto e tollerante, con l’ulteriore aspirazione a far parte – seppure nel riconoscimento delle storiche diversità – della grande famiglia europea. Le parole d’ordine che compendiavano le sue riforme – perestroika e glasnost – fecero ben presto il giro di tutti i continenti.
Le riforme
In effetti, il sistema che il nuovo Segretario si trovò di fronte si caratterizzava per sclerotizzazione burocratica e centralizzazione dell’economia. La Federazione sovietica riusciva meglio nei settori che meno si prestano alla concorrenza, come l’ambito aerospaziale, gli idrocarburi, l’istruzione pubblica. L’industria militare andava a pieno
regime, ma il Paese scarseggiava in quanto a beni di largo consumo.
Continuava a mancare una vera democrazia popolare. Libertà e diritti erano conculcati. Grazie a Gorbačëv, fu introdotta la tolleranza del dissenso politico. (Ad es., Andrei Dmitrievich Sakharov venne liberato dall’esilio e potè fare ritorno a Mosca).
Gorbačëv si impegnò a fondo nel suo disegno di pace mondiale, addivenendo con Washington a vari accordi per il disarmo nucleare, nell’ottica di un equilibrio stabile delle relazioni fra i blocchi geopolitici protagonisti della ‘Guerra fredda’. Dopo il vertice di Reykjavik con Reagan e il trattato per lo smantellamento degli armamenti nucleari intermedi, vi fu l’incontro con George H.W. Bush a Malta nel 1989. Il processo negoziale sfociò nei trattati ‘Start’, incentrati sulla limitazione delle armi strategiche. Lo sforzo di Gorbačëv in direzione della pace gli valse il Premio Nobel nel 1990.
Dopo molti anni di gelo, anche con la Cina ripresero normali relazioni diplomatiche. (Storica fu la visita di Gorbačëv a Den Xiao Ping). Pacifismo genuino, è vero. Ma è anche vero che l’Urss stava perdendo la ‘corsa agli armamenti’ lanciata dagli Usa e la corsa dell’avanzamento tecnologico. La situazione dei consumi interni necessitava di una scossa, per cui il bilancio destinato alle spese militari era la vittima designata. Inoltre, servivano prestiti per nuovi investimenti, ma l’Urss non aveva praticamente accesso ai mercati finanziari internazionali. (L’industria pesante nei decenni precedenti – si ricorderà – era stata alimentata dal grave sacrificio del mondo rurale).
Sul piano economico, nonostante l’evocativo richiamo alla Nep – la Nuova politica economica di Leniniana memoria – le riforme furono un disastro. L’introduzione di forme di proprietà privata non funzionò. Comparvero le file davanti ai negozi semivuoti. Nel 1991, era ormai chiaro che i tentativi di modernizzare il sistema avevano sortito l’effetto di destabilizzare le fondamenta che lo avevano sorretto sino ad allora.
Quello stesso anno, in conclamata crisi economica e con il prezzo del petrolio che precipitava, il Segretario del Pcus si rivolse al G7 – riunito a Londra – per chiedere aiuto sotto forma di prestiti. Non lo ottenne, nonostante da parte occidentale non fosse mancata la consueta retorica di circostanza. In conclusione, sperticati ma vacui proclami di vicinanza all’Urss.
La caduta
Intanto, le spinte centrifughe dei nazionalismi presenti nella Federazione vi stavano aprendo crepe sempre più inquietanti. Nel 1989 conflitti etnici si aprirono in Uzbekistan e Georgia, Azerbaijan e Armenia. Gli stati baltici si dichiararono indipendenti.
Il 9 novembre crollò il muro di Berlino e i paesi dell’Est Europa, facenti parte del patto di Varsavia, gradualmente si sfilarono dal blocco sovietico. Gorbačëv non battè ciglio dinanzi alla prospettiva della riunificazione tedesca, sapientemente orchestrata dal Cancelliere Helmut Kohl.
Un ulteriore colpo formidabile venne dalla stessa Repubblica russa. A capo di essa era stato eletto il populista-radicale Boris El’cin (già dirigente del Pcus). Ostile al gradualismo, era questi fautore di interventi riformatori decisamente liberali, nel segno del superamento del vecchio sistema e del passaggio a una piena economia di mercato. El’cin si rivelerà un’autentica mina interna al sistema Gorbacioviano. In più, naturalmente, all’interno del Pcus si trovavano forze ostili a qualsiasi cambiamento.
Il proscenio che avrebbe ospitato la caduta di Gorbačëv era dunque allestito. L’ala del partito presidiata dalla vecchia guardia e le forze che premevano vigorosamente per cambiamenti più rapidi e radicali, stavano cioè predisponendo la morsa che avrebbe stritolato Gorbačëv, divenuto nel frattempo Presidente dell’Urss. (Poco prima, era anche stata attuata una riforma elettorale parlamentare per il Congresso dei Deputati del Popolo).
Il momento decisivo fu l’agosto del 1991. Nel tentativo di salvare l’unità della Federazione, Gorbačëv puntava a un nuovo trattato, da sottoporre a fine agosto 1991 alle varie realtà statuali federate, il quale contemplava maggiori spazi di autodeterminazione locale. Formalmente, si sarebbe trattato di un’unione politica di repubbliche indipendenti. I conservatori presenti nel partito, ancora una volta palesemente contrari alla linea riformatrice, ricorsero a un tentativo di colpo di stato. Il 19 agosto, otto esponenti dei vertici del partito, del governo, delle Forze Armate e del KGB decretarono lo stato d’emergenza. Gorbačëv, che si trovava in Crimea, fu dichiarato decaduto per ragioni di salute e, di fatto, posto agli arresti domiciliari. Gennady Yanaev assunse i poteri. Ma Gorbačëv non accettò di firmare le proprie dimissioni.
Il ‘golpisti’ non furono, tuttavia, molto decisi nell’azione nè nell’occupazione dei centri di potere nevralgici. In conferenza stampa, Yanaev parve piuttosto insicuro e imbarazzato. A Mosca, davanti alla Casa Bianca (palazzo del Soviet supremo), El’cin salì su un carro armato e arringò la folla degli astanti accorsi sul luogo. Le forze militari e numerosi esponenti dei vari apparati passarono dalla sua parte. Presto El’cin, l’animatore della resistenza ai rivoltosi, sarebbe asceso all’Olimpo.
I disordini durarono pochi giorni. Dopo l’arresto dei cospiratori (uno di essi si era suicidato), il 23 agosto si riunì il Parlamento. Fu la consacrazione di Boris El’cin, il vero vincitore, abile in pochissimo tempo a organizzare una trama di rapporti politici contrapposta ai golpisti.
Costretto da El’cin, Gorbačëv dovette leggere davanti a tutti l’elenco dei complottisti. Ne facevano parte anche ministri del suo governo. Il Presidente russo accusò Gorbačëv di avere collocato in posti di responsabilità coloro che lo avrebbero poi tradito.
Poco tempo dopo, Gorbačëv tentò di salvare le sue riforme e prospettò al presidente della Federazione Russa e a quelli delle altre repubbliche sovietiche un dialogo sulla nuova struttura dell’Unione.
Ma era troppo tardi. Il suo destino era segnato.
Il ‘contropotere’ russo, impersonato da Boris El’cin, aveva preso il sopravvento. Il fallito colpo di stato determinò le sorti del Pcus. Il 23 agosto, il Presidente della Russia aveva
emesso un decreto che interdiva dall’operare le strutture organizzative del Pcus nel territorio della Repubblica e disponeva la confisca del relativo patrimonio.
Il 24 agosto Gorbačëv dovette lasciare la carica di capo del partito, sostituito da Volodymyr Ivasko. (In precedenza, nel febbraio del 1990 il Pcus, dopo l’abolizione dell’art. 6 della costituzione, aveva di fatto dovuto rinunciare al monopolio del potere). Nell’ottobre 1991 il Pcus venne bandito, e mettere fuori gioco il partito implicava inevitabili ripercussioni sulla struttura dello stato. Si torna, così, alla congiura dell’otto dicembre 1991.
Oramai, non vi era più un’unione da presiedere e Gorbačëv rassegnò le dimissioni il 25 dicembre 1991. La dissoluzione dell’Urss fu ufficialmente confermata il 26 dicembre del 1991, dal Soviet Supremo. Il 29 dicembre, Gorbačëv lasciò definitivamente il Cremlino. (Che fu occupato da El’cin). Alle elezioni per la presidenza russa del 1996, vinte da El’cin, Gorbačëv ottenne soltanto lo 0,5% dei suffragi.
Michail Sergeevič Gorbačëv non voleva la disintegrazione dell’Unione sovietica e nemmeno la scomparsa del socialismo. Ma è avvenuto tutt’altro. Gli eventi successivi sono stati di tutt’altro tenore: la Russia di Boris El’cin ha cercato di dimostrare alle potenze dell’ovest che sarebbe stata un paese modello di pedissequa conversione al liberismo.
Ha fatto così le auspicate privatizzazioni, ma la vecchia classe dirigente sovietica si è riciclata, dando inizio al saccheggio delle aziende di stato e creando la classe dei nuovi oligarchi. L’occidente ha spinto per la ‘terapia shock’ in cambio di prestiti da parte del Fondo monetario internazionale. La Russia è stata così catapultata nella trappola del debito estero e nel 1998 ha patito una pesante crisi finanziaria. Negli anni ’90 il Paese ha perso il 40% del Pil, battendo persino il primato negativo della grande depressione americana degli anni ’30. Così, forse non deve del tutto sorprendere che oggi, i russi, non abbiano un’opinione positiva della liberaldemocrazia occidentale.
Davanti all’eclatante insuccesso della ‘terapia shock’, il Presidente El’cin ha cercato di farsi attribuire pieni poteri. Siccome il Parlamento osteggiava le sue riforme, lo ha fatto cannoneggiare e sciogliere con la forza. (Battaglia di Mosca del settembre-ottobre 1993). I Paesi dell’Unione europea in quella occasione hanno apprezzato il contegno di El’tsin, definendolo inevitabile. Subito dopo, i partiti politici che avevano appoggiato la ‘rivolta’ del Parlamento, sono stati messi fuori legge.
Gli Usa e la Nato, mancando alla promessa fatta a Gorbačëv di non portare la Nato a est, hanno probabilmente fatto il resto. E’ stata allestita la scena per ciò che sta avvenendo in questi giorni.
Ancora, forse, non deve sorprendere che il ‘centro’ di Putin – la formazione politica Russia unita – abbia in animo, fra molti limiti e ostacoli, di restituire alla Federazione russa un ruolo nel mondo, oltre che portare l’eredità dell’Urss. Fino alla sfida disperata che è stata lanciata alla Nato, il 24 febbraio dell’anno in corso.
Ora, si tende a contrapporre l’aggressività e il risentimento sciovinista di Putin al pacifismo e allo spirito cooperativo di Gorbačëv. Ma, magari, si tratta di due situazioni non paragonabili. Anche l’occidente reca le sue responsabilità. Una volta destrutturata l’Urss esso ha badato, più che altro, a imbastire relazioni internazionale a suo esclusivo vantaggio. Il centro del sistema, gli Usa, ha preteso di ergersi a ‘deus ex machina’ del mondo. Ma la ‘pax americana’ è stata un’illusione.
Delusioni, disordine globale: questo è quanto emerso dalle velleità di conferire un univoco assetto neoliberale al mondo. Probabilmente, negli anni a venire ci attende un riequilibrio. Il procedimento è appena cominciato. E non sarà privo di frizioni e conflitti.