Quinto Sertorio nasce a Norcia nell’anno 126 a.C. (secondo altre fonti, meno attendibili, nel 122). Proviene da un’agiata famiglia di notabili sabini imparentata con quella di Caio Mario, che da homo novus nell’Urbe si sta già facendo un nome.
Fin da giovanissimo Quinto dimostra di possedere doti notevoli: ama lo studio ed è abile nel parlare; è inoltre coraggioso, perspicace e assennato. Si trasferisce a Roma e, sotto l’ala protettrice di Mario, compie i primi passi del cursus honorum. Un aspirante politico deve illustrarsi anzitutto come soldato: la prima campagna cui Sertorio partecipa è tuttavia una delle più disastrose della storia romana. Ad Arausio, nel sud della Gallia (106 a.C.), due eserciti consolari sono annientati da barbari venuti dall’est. A propiziare la disfatta è la spocchia del console (patrizio) Servilio Cepione, che rifiuta di collaborare con il collega di più umili origini e conduce i legionari al massacro: arrogante, inetto e pure ladro, visto che verrà fondatamente accusato di essersi impadronito dell’oro di Tolosa, cioè dell’immenso tesoro trafugato da un tempio gallico. Sertorio, che è poco più di un adolescente, non può certo incidere sull’esito della pugna, ma pur ferito riesce ad attraversare il fiume senza disfarsi dell’armatura: una piccola grande impresa che lo rende popolare fra i militi superstiti. È quasi una premonizione: per tutta la sua vita sarà abile nello sfuggire ai nemici e capace di farsi amare dagli ultimi.
Cimbri e Teutoni minacciano adesso l’esistenza stessa della Repubblica Romana: solamente Mario ha le qualità per fermarli e il condottiero, ottenuto il comando, prende con sé il promettente consanguineo. Quinto si dimostra all’altezza della fiducia in lui riposta: non solo si batte da prode, ma indossati i panni di un barbaro porta a termine delicate missioni di spionaggio (oggi diremmo di intelligence) nel campo nemico. A Caio Mario bastano due cruentissimi scontri per congedare Cimbri e Teutoni dalla Storia; Quinto Sertorio, che ha contribuito al successo, viene premiato con la questura in anno e poi con il governatorato della Cisalpina.
La tappa successiva è l’Iberia, dove doma senza troppi sforzi una pericolosa rivolta – ma a questo punto accade qualcosa. Con profferte e lusinghe il governatore romano (da cui Sartorio dipende) attira in un tranello i maggiorenti di una tribù per poi farli massacrare a tradimento: al nipote di Mario questi metodi ripugnano, e fanno altrettanto schifo le ruberie cui proconsoli e propretori si abbandonano senza ritegno. Ormai il nostro è un esponente di primo piano del partito dei populares, cui aderisce con intima convinzione: il fedifrago Didio viene messo alla porta. Nel panorama politico dell’epoca Quinto Sertorio costituisce un’eccezione poiché è onesto, corretto e disinteressato, e già prima di assumere il governo della provincia iberica sa cattivarsi la benevolenza e il rispetto dei nuovi sudditi.
In Hispania ci ritornerà, ma prima deve prestare servizio nell’orrendo conflitto fratricida denominato guerra sociale: si batte e comanda con l’abituale perizia, ma senza passione – fosse per lui l’estensione agli italici del diritto di cittadinanza sarebbe già cosa fatta. Perde un occhio, ma resta quello di sempre: integerrimo, indomito e pieno di risorse. Allorché le contrapposte ambizioni personali di Mario e Silla scatenano la guerra civile si schiera subito con il suo mentore, ma prova disgusto quando un Caio Mario vecchio e incarognito precipita l’Urbe in un’orgia di sangue (in seguito l’antagonista farà comunque di peggio). Sertorio si tiene in disparte e alla morte del capopartito riparte per l’Iberia con in tasca la nomina a governatore accordatagli dal nuovo “uomo forte”, Lucio Cornelio Cinna.
Amministra la sua provincia con umanità e avvedutezza, ma gli ottimati non possono perdonargli la lunga militanza nel partito avverso, ormai piegato, e inviano contro di lui un grande esercito guidato dal sillano Quinto Cecilio Metello Pio. Abbandonato da molti dei suoi, Sertorio attraversa il mare e si rifugia in Mauritania, ma accarezza il sogno di una clamorosa rivincita: con pochi seguaci sconfigge un contingente romano numericamente superiore e convince i sopravvissuti a unirsi a lui. Si imbarca di nuovo e rimesso piede in Spagna infittisce le proprie schiere pescando fra gli autoctoni, che non hanno scordato il suo buon governo. Con una marcia fulminea raggiunge in Lusitania Metello, troppo sicuro di sé, e gli infligge una pesante batosta: i romani sono in rotta e le città della penisola aprono festose le porte al precedente (e rimpianto) governatore. Per i celtiberi Quinto Sertorio è il “nuovo Annibale”, e non solo perché come l’indimenticato (e ancora popolarissimo) condottiero punico è cieco da un occhio: sono la frugalità, il coraggio e l’astuzia del sabino a giustificare l’impegnativo paragone.
In breve quasi l’intera penisola iberica è sotto il suo controllo, e lui concepisce un sogno audace: quello di edificare una nuova Roma, altrettanto forte ma più equa e – se vogliamo – democratica. Istituisce un senato sul modello di quello capitolino, chiamando a farne parte trecento uomini illustri fra esuli mariani e capi locali; a Osca (l’attuale Huesca) fonda una scuola, in cui la gioventù del posto sarà educata alla maniera romana. Intende latinizzare quel popolo fiero, ma senza umiliarlo né calpestarne le tradizioni millenarie; tassa senza scorticare e concede importanti diritti alle comunità. Le sue orazioni infiammano i patrioti, anche perché Sertorio non si rivolge a loro da straniero: curioso e intelligente com’è assimila la mentalità degli Iberi e senza spogliarsi della sua romanità si mostra in grado di “catturarne le menti” dopo aver fatto lo stesso con una cerva albina che, una volta addomesticata, sarà sua compagna inseparabile per anni. Quell’animale che lo segue ovunque egli vada diviene, agli occhi del popolo, un messaggero degli dei e un segno della loro benevolenza: la causa è giusta, e che a guidare gli insorti sulla via dell’indipendenza sia un essere umano che dei romani ha le virtù ma non gli esecrabili vizi sembra a molti una garanzia di esito fausto.
Silla è morto, ma la Repubblica aristocratica non può tollerare il sorgere e l’affermarsi di un “doppione” (fra l’altro più inclusivo e assai meno corrotto) in un territorio dato da secoli per acquisito e gioca il suo asso: il giovane Gneo Pompeo, non ancora Magno ma già idolatrato dalle folle per il suo fascino e le brillanti doti di comandante esibite nella guerra civile.
(La seconda parte verrà pubblicata sabato 24 settembre)