Quando la Commissione europea ha accettato di inserire gas fossile e nucleare nella tassonomia che verrà votata al Parlamento europeo, siamo rimasti senza parole.
Il fossile passa a questo punto impunito avanti a tutto calpestando ogni promessa di una transizione vera, giusta ed efficace e l’Italia, di conseguenza, fa ripartire le trivellazioni; l’Eni manterrà il suo ruolo di estrattore, nonostante le dichiarazioni pubbliche del Governo di aver avviato una scelta green.
L’ENI, insistiamo, in contrasto con gli impegni sottoscritti per l’emergenza climatica, avrà un ruolo centrale nelle estrazioni, nonostante sia tra i responsabili delle emissioni di gas serra.
Avanti tutta al fossile, con sovvenzioni e grandi numeri per la sorveglianza da parte delle piattaforme ENI nelle acque nazionali e internazionali, difesa organizzata con un impegno militare UE-NATO.
La scelta di sostenere le trivellazioni comporterà, inoltre, l’acuirsi dei conflitti tra gli Stati per l’accaparramento del fossile con i Petrostati (i Paesi produttori) disposti a difendere in ogni modo e a caro prezzo le zone di approvvigionamento.
1.Come mai il via libera al gas e al petrolio?
Di fronte al caro gas degli ultimi mesi non si è trovato di meglio, da parte del governo in carica, di potenziare la produzione di gas e petrolio. Esiste il progetto di riattivare le trivellazioni lungo le nostre coste, prevedendone inoltre di nuove. Si inizierà da Ravenna innanzi tutto, per arrivare alle coste e ai territori di buona parte delle regioni italiane, dalla Basilicata, all’Emilia Romagna, all’Abruzzo, al Veneto, al Molise, alla Lombardia, alla Sicilia, alla Calabria, senza tralasciare il Friuli Venezia Giulia, vera new entry.
Si prosegue così con un circolo vizioso, più si trivella per trovare gas e petrolio più infrastrutture vengono costruite e più i loro costi, per essere ammortizzati, hanno bisogno di maggiore gas e petrolio. Queste scelte avvengono senza nessun rispetto per quelle tanto pubblicizzate entusiastiche adesioni a tutte le campagne per la difesa del clima, contravvenendo così a tutti gli impegni presi per superare la dipendenza da petrolio e gas e smettere gradualmente di usare il fossile come fonte di energia.
2. Quale sarà il ruolo dell’Eni? Con quali conseguenze?
Un gruppo di organizzazioni e movimenti ambientalisti, il 14 febbraio scorso, ha presentato alla sede Ocse – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – un’istanza di denuncia contro il piano industriale di Eni, inadeguato a sostenere il rispetto delle regole per contribuire a fermare i cambiamenti climatici. Nei rilievi sollevati dalle ong riguardo il piano industriale di Eni, c’è il fatto che il piano non prevederebbe un taglio sufficiente delle emissioni previste per i prossimi anni e che mancherebbe una valutazione complessiva dell’impatto climatico delle attività d’impresa.
L’Eni non fornisce neppure informazioni “trasparenti e adeguate” e non ha elaborato un piano di prevenzione e mitigazione dei rischi, come invece è previsto dalle Linee Guida dell’Ocse per le imprese multinazionali.
Marica di Pierri, portavoce della onlus A Sud, precisa con puntualità: “Parliamo di greENIwashing perché il greenwashing sembra diventato per Eni un marchio di fabbrica. Per quanto si sforzi di raccontarsi come attenta all’ambiente, Eni resta saldamente il primo emettitore italiano di gas serra ed è circa al 30esimo posto a livello globale”.
“A ciò va aggiunto che lo Stato italiano possiede oltre il 30% delle azioni di Eni”, ha aggiunto di Pierri. “Anziché permettere all’impresa di condizionare le politiche energetiche nazionali, lo Stato dovrebbe orientarne il piano strategico verso un’ottica di abbandono delle estrazioni, che invece sono ancora in crescita, anno dopo anno”. Intervengono con una nota anche Eleonora Evi ed Angelo Bonelli, co-portavoce nazionali di Europa Verde: “Sosteniamo con convinzione questa iniziativa, a cui abbiamo contribuito sin dall’inizio e per la quale abbiamo chiesto e ottenuto il supporto dell’intero gruppo dei Greens del Parlamento Europeo. Inammissibile che, proprio mentre l’emergenza climatica richiede l’eliminazione delle fonti fossili, Eni continui impunemente ad investire in estrazioni di oil & gas”.
Anche Philippe Lamberts (VERDI/Ale) accusa ENI di aver dichiarato spontaneamente di volersi impegnare a rispettare gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi attraverso la firma del Paris Pledge for Action, ma di non aver rispettato l’impegno. Il piano industriale, nonostante le promesse, prevede un incremento del 4% annuo della quantità di oil&gas estratto nei successivi tre anni, un trend di riduzione delle emissioni non in linea con i suggerimenti utili a rispettare i target di lungo termine previsti dall’Accordo di Parigi e il ricorso a tecniche riconosciute come controverse ed inefficaci, come il CCS (processo di cattura e stoccaggio di CO2) o la produzione di idrogeno blu.
Proteste da Rete Legalità per il clima, A Sud, Forum Ambientalista, Generazioni Future – Cooperativa di mutuo soccorso, Fridays for Future, Extinction Rebellion Milano, Per il clima fuori dal fossile, Emergenzaclimatica.it, Europa Verde, Greens/ALEa al Parlamento Europeo, Diritto Diretto.
3. Ci sono state e ci saranno ricadute sui conflitti locali e internazionali? Perché gioiscono i Petrostati?
Secondo Sofia Basso di Greenpeace Italia, le fonti fossili non sono soltanto all’origine di inquinamento e cambiamenti climatici, ma anche dei conflitti in molte aree del mondo.
Tra i casi più recenti citati dagli specialisti spiccano il conflitto russo-ucraino, le tensioni nel Mediterraneo orientale e la competizione nel Mar cinese meridionale. In particolare, nell’articolo Fueling the fire: pathways from oil to wars (2013), Jeff D. Colgan, professore alla Brown University, ha calcolato che circa metà delle guerre esplose dopo il 1973 ha un legame con il petrolio. Non ci si riferisce solo alla classica invasione militare diretta a impadronirsi delle fonti energetiche di un altro Paese, le ragioni e le modalità sono più articolati. Colgan suggerisce di guardare alla “proprietà e struttura del mercato”. Secondo questa interpretazione, la coalizione internazionale intervenuta in risposta all’invasione irachena del Kuwait puntava fondamentalmente ad evitare scossoni al mercato petrolifero, più che ad impadronirsi di nuove riserve fossili.
Sull’insorgenza dei conflitti pesano anche le “politiche dei produttori”: i proventi petroliferi possono aumentare l’arbitrio dei governi, moltiplicando il rischio di scontri con i Paesi vicini.
I numeri, del resto, parlano chiaro: i “Petrostati” sono coinvolti in dispute armate interstatali il 30 per cento in più degli altri; invece di rafforzare l’economia e la democrazia di un Paese, la ricchezza energetica può favorire sistemi autoritari.
Un evidente caso di conflitto di cui si parla oggi è l’annessione russa della Crimea, che ha fornito a Mosca il controllo sulle risorse energetiche offshore della Crimea.
4. Quali assurde e costose protezioni per le aziende del fossile?
Un argomento poco conosciuto riguarda poi le spese per la protezione militare UE – NATO sulle grandi aziende del fossile Greenpeace ha scoperto, ad esempio, che circa il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari all’estero è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili, per un totale di quasi 800 milioni di euro spesi nel solo 2021 e ben 2,4 miliardi di euro negli ultimi quattro anni.
I luoghi di estrazione vengono militarizzati, dal Golfo di Guinea al largo della costa libica. Italia, Spagna e Germania presidiano i mari per difendere la ricerca, l’estrazione e l’importazione di gas e petrolio. Difficile trovare esplicitato il mandato per il fossile, queste operazioni sfuggono a mezza bocca da politici e militari.
Un’assurda contraddizione, gli Stati spendono fior di quattrini non per proteggere territori e popolazioni per i cambiamenti climatici, ma per incrementare la protezione militare al fine di sostenere le estrazioni e le Multinazionali del settore.
Per l’Italia risultano, sempre da Greenpeace, 40 missioni militari nel 2021 con una spesa di circa 1,2 miliardi di euro, con le maggiori presenze navali in Iraq e Libia.
Conclusioni
Il gas italiano, argomento messo in rilievo anche nella transizione ecologica del Ministro Cingolani, non può certamente coesistere con tante belle parole per il rispetto degli accordi di Parigi e un programma di riduzione dei cambiamenti climatici. E’ assurdo che una scelta del fossile comporti rischi di conflitto nel mondo e sia sostenuta da imponenti fondi alla difesa militare per presidiare aree rischiose. Vorremmo che si parlasse a chiare lettere di rinnovabili e di impegni certi per scelte alternative. Ricordiamo che a Glasgow, alla COP26 del nov.2021, alcuni Paesi industrializzati si sono impegnati al Boga (Beyong Oil and Case Alliance) a bloccare nuove licenze per il fossile, mentre abbiamo scoperto poi che l’Italia ha aderito come Paese amico e non come associato, volendo mantenere il ruolo centrale del fossile. E allora FOSSILE, avanti tutta!
stopttipud@gmail.com
Fonti
- Livio De Santoli, Gas italiano, l’inutile piano di Cingolani, il manifesto, 17 febbraio 2022
- Clima, ambientalisti denunciano ENI, il fatto quotidiano, 14 febbraio 2022
- Maria Rita D’Orsogna, La transizione delle trivelle, comune-info, 14 Febbraio 2022
- Il 64% della spesa per missioni militari è per proteggere le aziende del fossile,
il fatto quotidiano, 9 Dicembre 2021 - C’è una pericolosa alleanza tra missioni militari e industria fossile, come mostra il rapporto che diffondiamo oggi sulle operazioni italiane, Ue e Nato a difesa di fonti fossili, Greenpeace, 9 Dicembre 2021
- Sofia Basso, Non solo cambiamenti climatici: le fonti fossili sono anche alla base di molti conflitti, il fatto quotidiano, 2 Dicembre 2021
- Luciana Buttini, Combustibili fossili, l’Europa li critica ma poi vince la lobby del gas, Voci Globali, 27 Ottobre 2021