Benché non abbia ancora compiuto trent’anni, Gneo Pompeo è già un protagonista indiscusso della vita politica e militare romana: per vendicare il padre Strabone – a guerra civile in corso – ha arruolato a sue spese un paio di legioni e si è messo al servizio di Silla, cogliendo sorprendenti vittorie sugli inetti comandanti mariani. L’impresa più celebre – esaltata, ma anche biasimata – è stata la cattura di Gneo Papirio Carbone, capofazione succeduto a Cinna, e la sua esecuzione all’esito di un processo men che sommario. Dopo la morte del dittatore nel 78 a.C. Pompeo è assurto a punto di riferimento per gli ottimati al potere: a lui vengono affidate la liquidazione del console ribelle Lepido (un voltagabbana più ambizioso che abile) e successivamente, nel 76 a.C., la spedizione contro Sertorio, che in Iberia sta coprendo di ridicolo il patrizio Metello.

Per il piceno quella spagnola è una pratica da sbrigare senza indugi: discende a marce forzate i Pirenei e si dirige verso la costa est, dove il nipote di Mario ha basi e sostenitori. Rispetto al rivale Gneo dispone di molti più soldati (circa 25 mila): conta perciò di riportare un agevole successo e nemmeno si cura di congiungere le sue forze con quelle di Cecilio Metello, di cui ha scarsa stima. Chi sarà mai questo Sertorio? Un dilettante al pari di Mario il Giovane e Carrinate, si figura… Pompeo dovrà presto ricredersi: mentre assedia Laurone, località situata fra Sagunto e Valencia, vede comparire all’improvviso l’esercito nemico, che ha occupato senza clamori le colline circostanti. Investita in pieno l’armata repubblicana perde un quarto dei suoi effettivi e lo stesso presuntuoso condottiero rischia la vita e riporta ferite – ce la fa però a sganciarsi e si ritira verso nord.

Il primo contatto è stato traumatico, ma Gneo Pompeo non dispera: ha ancora truppe a sufficienza, e alle sue si aggiungono ben presto quelle del collega. La caccia a Sertorio riprende, ma è la presunta preda a scegliere se e quando venire a battaglia – e a imporsi pressoché ogni volta, anche se mai in maniera decisiva. Più che una guerra il duce mariano conduce operazioni di guerriglia: mobilissimo e buon conoscitore dei luoghi falcidia le retroguardie romane, tende imboscate a interi distaccamenti (che vengono puntualmente decimati) e quando il terreno è a lui propizio sfida i frustrati comandanti sillani, che col passare dei mesi però assumono un atteggiamento più prudente e, impossibilitati a battere l’inafferrabile Quinto, rivolgono la propria attenzione a sottordini e alleati. Sertorio non può essere ovunque, e i suoi luogotenenti non si dimostrano all’altezza e si lasciano a loro volta sorprendere da Metello e Pompeo, che hanno nuovamente diviso le forze per poter agire con maggiore rapidità. I coraggiosi guerrieri iberici, micidiali se convenientemente guidati, in assenza del condottiero si fanno ripetutamente sconfiggere dai sillani (e in particolare dal sottovalutato Metello, più posato dell’irruento collega), che pian piano “liberano” territori sempre più vasti.

Quinto Sertorio comincia a essere in difficoltà: la sua tattica mordi e fuggi è senz’altro efficace, ma non è riuscito in due anni di lotta a dare scacco matto ai tenacissimi avversari e vede adesso le sue file assottigliarsi, anche perché Pompeo – che ha ottenuto da Roma i sospirati rinforzi – tratta umanamente coloro che si sottomettono. Il piceno sta lentamente imparando la lezione: rifugge ormai da mosse avventate, pianifica con accuratezza le future operazioni e fa un uso sapiente degli esploratori oltre che – come detto – della diplomazia. Sertorio però è deciso a giocarsi il tutto per tutto, e per contrattaccare si spinge molto a nord, fino a raggiungere il fiume Ebro. Nei pressi dell’attuale Calahorra (74 a.C.) si combatte una grandiosa battaglia: Sertorio ha ancora una volta la meglio in campo aperto grazie all’uso spregiudicato della cavalleria, ma Pompeo e Metello, pur perdendo molti legionari, riescono infine a disimpegnarsi. Il mariano non li insegue: le sue schiere sono indebolite e fatica a trovare nuove reclute. D’ora in avanti l’iniziativa passerà agli invasori: il cerchio si stringe intorno all’invitto cavaliere sabino, che non ha più accanto a sé la candida cerva. I popoli, si sa, sono volubili, e gli ispanici, che tanta fiducia avevano riposto in lui, incominciano a dubitare che la Fortuna assista il loro campione. Non sto parlando di “buona sorte”, ma di una specie di benedizione divina che, elargita a pochi prescelti, li rende invincibili o quasi, e non dipende (solo) da meriti individuali: i Romani – e in genere i popoli guerrieri dell’ecumene – la tenevano in gran conto, non a caso Silla si autodefinì felix (=fortunato) e Cesare magnificò a più riprese la propria Fortuna. Lo stesso Napoleone, parecchi secoli dopo, affermerà di preferire un generale fortunato a uno bravo…

All’infaticabile Quinto Sertorio il dono celeste non è stato elargito: lui stesso inizia a disperare della vittoria e a guardarsi sospettoso intorno. Teme complotti ai suoi danni, e non a torto: nel 72 a.C., al culmine di un banchetto notturno, sarà ucciso a tradimento dal suo vice Marco Perperna, un altro esule mariano. Pompeo aveva messo una taglia sulla testa dell’incrollabile nemico, ma non è l’avidità il movente, e neppure – suppongo – la crescente sfiducia in un uomo che, oppresso dalle preoccupazioni, cercava sempre più frequentemente conforto nel vino. Nell’ultimo periodo Sertorio studia vie d’uscita da una situazione sempre più complicata: tratta coi pirati cilici e persino col redivivo Mitridate, nemico giurato della Repubblica. Con il re pontico stipula addirittura un’alleanza, in base alla quale gli fornisce comandanti esperti delle tattiche legionarie: pur di non darla vinta agli odiati sillani non esita insomma a scendere a patti con un sovrano straniero, barbaro e spergiuro. Per uomini come Perperna una simile condotta puzza probabilmente di tradimento della patria e risulta inaccettabile, al pari dell’eccessiva familiarità con cui il condottiero tratta gli autoctoni. Da un nobile romano, da un quirite, i suoi pari si aspettano un atteggiamento di superiorità, se non di aperto disprezzo, nei confronti dei sudditi allogeni, principi o popolani che siano: le aperture di Quinto appaiono sospette e financo oltraggiose.

Il generoso tentativo di dar vita a una Roma fondata non sulla purezza del sangue ma su valori comuni naufraga in un’oscura notte di malinconici bagordi: Perperna però non si presenta davanti a Pompeo per ritirare il pretium sceleris, assume invece la guida di quel che resta dell’esercito di Sertorio e va incontro a una rapida disfatta e alla morte – egli è solo una comparsa sulla scena della Storia, poiché l’ultimo dei mariani è perito sotto i suoi colpi.

Gli ottimati proveranno a offuscare la memoria di Sertorio, spargendo malevole dicerie sul suo conto, ma Cesare lo prenderà a modello e l’obiettivo Plutarco ne esalterà la magnanimità, la perizia e il coraggio. A giovarsi degli insegnamenti di Sertorio sarà però soprattutto Gneo Pompeo, che l’esperienza degli smacchi subiti trasformerà in un meticoloso organizzatore e in un duce attento e ponderato. Il Magno è ricordato soprattutto per la rotta di Farsalo e la successiva misera fine, ma lui quella pugna l’avrebbe volentieri evitata – il suo disegno era quello di logorare Cesare, e magari si sarebbe rivelato vincente. Cedette alle insistenze di milites gloriosi di alto lignaggio e andò incontro al suo destino.

(fine seconda e ultima parte)