Gli avvenimenti dell’assedio di Capitol Hill durante il passaggio di consegne da Donald Trump a Joe Biden hanno riportato alla luce una questione fondamentale per gli equilibri democratici mondiali del presente e del futuro. Già in passato gli osservatori più attenti avevano potuto intravederne i segnali, ma il caso Trump ha permesso di scatenare il dibattito quasi ovunque nel mondo, seppur in maniera, come sempre, piuttosto immatura.
Il tema è quello dei social network ed il loro rapporto con la libertà di espressione, di pensiero ed i risvolti democratici che il grado di queste libertà determina. Come sappiamo, le più importanti piattaforme (tra le quali Twitter, Facebook, Instagram) hanno sospeso gli account di Donald Trump dopo i fatti di Capitol Hill, sostenendo che la condotta dell’ormai ex Presidente fosse pericolosa e potenzialmente produttrice di violenza.
Vero? Falso? Il punto della discussione non è e non deve essere questo. Proprio qui si nota l’immaturità del dibattito: abbiamo assistito al solito scontro tra fazioni (quella a favore di Trump e quella contraria), alla solita divisione manichea tipica ormai di ogni situazione. Anzi, a ben vedere è stato proprio il fronte anti-Trump questa volta a non rendersi conto della trappola in maniera più evidente.
Il nocciolo della questione è il potere dei social network di decidere in autonomia cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, chi abbia diritto di parola e chi no, quali siano i limiti dell’espressione del pensiero e quando questi vengano valicati. In breve, i social network, lasciati liberi di fare, diventano i nuovi Signori del Diritto: in un colpo solo legislatori e giudici. Appare, dunque, evidente come una dinamica del genere sia fortemente pericolosa per la libertà di espressione e per la democrazia, sul piano non solo dei singoli Stati ma anche internazionalmente.
Le giustificazioni a tutto ciò si sono sprecate: innanzitutto, ovviamente, si è provato a dare ragione alle piattaforme social in nome dell’irricevibilità delle posizioni di Trump e dei suoi sostenitori. Chi sostiene questa ipotesi non riesce ad afferrare che l’arbitrarietà odierna potrebbe in futuro calare come una mannaia su altri, per altre posizioni, con altre finalità.
Qui non si tratta di difendere l’ex Presidente USA, ma di difendere un presupposto basilare della democrazia: gli individui sono sottoposti solo e soltanto alla legge e possono essere giudicati solo da un giudice, il quale a sua volta non è legibus solutus. Ed il monopolio legislativo e giudiziario spetta ai poteri pubblici, specialmente nell’ambito dei diritti fondamentali e costituzionali.
Per questo, nulla cambia la seconda giustificazione molto popolare: i social network fanno capo a società private, le quali possono imporre le condizioni che preferiscono, in quanto, appunto, private. Siamo di fronte all’ennesima posizione figlia dei nostri disgraziati tempi di santificazione del privato, senza la minima considerazione dei risvolti di un ragionamento di questo tipo. Tale tesi, infatti, porterebbe a conseguenze assurde: ad esempio, si potrebbe sostenere che una tv privata possa decidere liberamente di oscurare totalmente le voci politiche a lei non gradite.
Ovviamente sarebbe un vulnus democratico di proporzioni inaccettabili. Questo dimostra la rilevanza pienamente pubblica dei servizi di comunicazione, a prescindere dal fatto che essi siano messi a disposizione da un privato. Tuttavia, è ormai evidente la pericolosa deriva in ogni settore legislativo e giudiziario: la privatizzazione del diritto. Questo procedimento è partito in ambito privatistico e commerciale ed ora si cerca di estenderlo in ambito pubblico e costituzionale.
Si tratta di respingere questa visione in maniera netta e senza sconti, rimettendo al centro lo Stato di Diritto. Per farlo, non si deve plaudire a Facebook, ma chiedere con forza che sia la legge a stabilire i limiti e i poteri pubblici ad applicarli, spogliando i privati del potere di far da sé. Per fare questo, sono necessari il ritorno della politica e la relegazione degli istinti da tifoseria al nobilissimo gioco del calcio.