La nostra contemporaneità è contrassegnata, potremmo dire, dall’eclisse della politica, quella che un tempo, e per secoli, era stata la sfera principe dell’agire umano, la dimensione più alta grazie alla quale gli uomini hanno potuto incidere nel reale governando così il processo storico, costruendo la realtà sociale, elaborando modelli di scambio economico, delimitando i confini dell’esistenza civile e giuridica delle comunità, oggi è evaporata, destrutturata nei suoi nessi più profondi, esposta al pubblico ludibrio e al generalizzato disprezzo.
Da quando l’estremismo mercatista e l’ideologia neoliberale, grazie al combinato disposto di tecnologia digitale e capitalismo finanziario, hanno preso il sopravvento delle nostre società, imponendo il credo unico nelle magnifiche sorti e progressive dell’aziendalizzazione del pianeta, la politica ha perso progressivamente terreno, fino al punto di coincidere con l’economico, annullandosi, così, come ambito autonomo dell’agire umano.
In definitiva, la politica si è autodistrutta, degradandosi a branca esecutiva del potere economico, mal tollerata dal capitale che la accetta solo fintanto che la usa per i propri fini “estrattivi”, dileggiata dalle popolazioni che ne avvertono l’inutilità per le proprie vite, e la conseguente pericolosità: riforme delle pensioni peggiorative, salari da fame, retribuzioni ostaggio dei voleri aziendali, delocalizzazioni selvagge, comuni sprovvisti di risorse, ambiente malato, inquinamento crescente, consumo del territorio, precarietà “eternizzata” da norme ideologiche, stato d’eccezione permanente, per citare i grani più noti di un rosario doloroso che la gente ha imparato a conoscere a proprie spese dalla caduta del Muro in poi, ovvero da quando il paradigma neoliberale, liberatosi della competizione del socialismo reale a guida sovietica, si è affrancato da ogni considerazione di giustizia sociale e redistributiva, che nella Guerra Fredda doveva avere, invece, come stella polare, diventando pensiero unico e fine della storia dell’occidente capitalista.
Come spesso succede nella storia delle vicende umane, il linguaggio è la prima spia di mutamenti profondi della dinamica sociale ed economica, oltre che politica, tanto che, oggi, potremmo affermare senza tema di smentita che i “politici” parlano una lingua morta, fatta di concetti che non rivestono più importanza per la maggioranza della popolazione, agglomerati di parole che non hanno più senso politico “operativo”, involucri che nascondono l’assenza di contenuto: destra, sinistra, centrodestra, centrosinistra, progressismo, ma soprattutto “riforme” e “riformismo” esprimono l’afonia di una politica morta e sepolta.
Quante volte in questi tre decenni il “mercato” ha preteso, imposto, “riforme”, in realtà controriforme spietate, che hanno impoverito il ceto medio delle società dell’Occidente avanzato? Quante volte il banchiere centrale di turno, o il manager eletto a guida spirituale del sistema, ha chiesto “riforme strutturali”? Tante, troppe, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: povertà crescente, futuro precario, distruzione delle aspettative di crescita economica e non delle giovani generazioni, sfiducia generalizzata nelle istituzioni della democrazia rappresentativa, abbassamento drammatico della qualità delle democrazie parlamentari.
Se dalla Rivoluzione francese in poi, e soprattutto nel trentennio glorioso dalla fine del secondo conflitto mondiale, la politica, in particolare quella innervata dai movimenti socialisti e comunisti, “dava” al popolo, in termini di diritti, possibilità, norme, tutele, istituti giuridici e politici che hanno fatto progredire le società occidentali, oggi la politica, ridotta a cinghia di trasmissione del Capitale, “toglie” a quello stesso popolo, e si caratterizza per una continua e indefessa opera di bullizzazione di massa, fatta di norme punitive, leggi contrarie ai lavoratori, tagli e riduzioni del welfare e della statualità sovrana: il perimetro del pubblico che fino agli anni settanta era in progressiva espansione, dagli anni ottanta in poi si è ridotto drammaticamente, e il nefasto processo non accenna a fermarsi. Le “riforme” in realtà hanno veicolato la repressione salariale delle masse e la repressione finanziaria degli stati, vedi la vicenda grottesca della propaganda antitaliana sul debito pubblico.
Dallo Sme a Maastricht, dalla sconfitta operaia del 1980 all’euro, da Ciampi a Draghi, il cammino della progressiva spoliticizzazione della società italiana, ma il processo è comune alla maggioranza delle società continentali, è stato lungo ma ha raggiunto l’approdo definitivo della post-democrazia, delle democrature al soldo dei padroni del vapore 2.0: la Lunga Marcia del liberismo “reale” è compiuta. Solo una costante opera di demistificazione ideologica dei fondamenti della narrazione neoliberale, solo un paziente lavorio di decostruzione della falsa coscienza del lessico del Capitale, può costruire una prospettiva di critica e superamento di un modello crudele e ingiusto, che sta portando il pianeta al collasso, alla povertà di massa e alla fine della forma democratica.