Spesso nelle discussioni che riguardano l’unione europea, si sente il classico ritornello: “eh, ma fanno i loro interessi!”, quando si parla di tedeschi e olandesi, per esempio, mentre quando si passa ad illustrare le posizioni italiane, parte invariabilmente un: “eh, ma abbiamo il debito, non sappiamo spendere i soldi, siamo corrotti!”, quasi a cristallizzare una sorta di scontro fra luoghi comuni, prima che tra politiche estere, che non cambiano mai.
Io credo che questo pessimo modo di guardare alle cose politiche sia il frutto storico avvelenato di un paese come il nostro nel quale vige una statualità debole e limitata, con una percezione della propria identità precaria, che per definirsi ha sempre bisogno del confronto con l’esterno, percepito immancabilmente come più forte, efficiente, moderno di “noi”. Quando basterebbe uno sguardo, anche distratto, alle storie politiche altrui, per capire che le cose sono più complesse di come le vorrebbe dipingere una stampa prona agli interessi di pochi capitalisti senza scrupoli.
Il problema politico fondamentale italiano è innanzitutto ideologico e culturale, prima che politico, questo nostro sentirci sempre “antitaliani” e in perenne guerra con noi stessi, che non ci fa capire le nostre reali dimensioni e la strada che vogliamo intraprendere nel concerto internazionale. Ad esempio: si parla sempre di Italia come di un paese naturalmente, per storia, posizione geografica e vocazione, proteso nel mediterraneo, in grado di tessere complesse trame economiche, commerciali e politiche con il mondo arabo, ma, poi, alla fine, siamo stati davvero capaci di perseguire questo obiettivo, al di là delle retoriche utilizzate? La vicenda libica non depone per una risposta positiva, così come il nostro rapporto con l’Egitto, per fare un altro esempio, ha messo in luce tutte le manchevolezze della nostra politica estera, che spesso pare fatta più da grandi entità imprenditoriali come l’Eni che dalla Farnesina.
Servirebbe una classe dirigente, intesa nel senso più ampio, in grado di costruire una visione articolata e di lungo periodo del nostro ruolo nel complesso mondo globalizzato, ma la formazione sociale e culturale dei ceti dirigenti del paese è sempre stata un problema per noi, ha sempre riflesso la più generale debolezza identitaria dell’Italia che ha sempre avuto quasi vergogna nel definirsi come nazione.