Ineluttabilmente, quando è tempo di programmazione finanziaria e le formazioni politiche che costituiscono il governo in carica hanno fama di eterodossia rispetto ai dettami dell’Unione Europea, ricompare lo spettro dello ‘spread’.
In questi giorni il Governo ha approvato la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2023, che reca gli obiettivi per il triennio 2024/2026 (NaDef).
Ricomincerà il consueto mercanteggiamento con la Commissione europea, visto che il rapporto deficit/Pil si preannuncia superiore a quanto programmato in Aprile. Infatti, pare che la crescita economica del periodo 2023-2024 sarà più bassa rispetto alle attese e, per poter finanziare misure come l’eterna riduzione delle imposte, il deficit del 2024 sarà rivisto al rialzo (fino al 4,3% invece del previsto 3,6%), mentre quello dell’anno in corso salirà al 5,6%. In particolare, portando l’indebitamento netto al 4,3% l’anno prossino, il Governo conta di ‘liberare’ 14 miliardi da ‘collocare’ nella prossima manovra.
Il Governo assicura che, nel corso della legislatura, sarà implementato un percorso di sostenibilità del quadro della finanza pubblica – in linea con le Raccomandazioni di Bruxelles – e promette di contenere la spesa pubblica (2 miliardi di tagli il prossimo anno) e di impegnarsi a effettuare nuove privatizzazioni. Il rapporto debito/Pil, 140,1% del 2024, dovrebbe calare piuttosto velocemente.
La Nota di aggiornamento è stata approvata, inoltre, in una cornice ‘giuridica’ incerta, dato che vi è in corso un procedimento di revisione del famoso (o famigerato) Patto di stabilità. (Quello che dispone i noti vincoli di finanza pubblica ai Paesi membri della UE).
La speculazione finanziaria, che parte non irrilevante ha avuto nei recenti rincari delle materie prime energetiche, per agire non aspetta altro che notizie associabili ad aspettative sui prezzi delle attività trattabili nei mercati.
Immediatamente dopo l’approvazione della NaDef il temibile ‘spread’ si è innalzato fino a 200 punti base, con un rendimento delle obbligazioni italiane salito al 4,94%. Sul Financial Times è stato addirittura scritto che Roma minaccia il mercato dei bonds.
Lo ‘spread’ è generalmente associato a un giudizio oggettivo – quasi sacrale – dei mercati sul debito pubblico. In questi giorni, dunque, l’attenzione è stata puntata sul quadro finanziario predisposto dal Governo.
In genere, si ritiene che fare attenta vigilanza alla dinamica dello ‘spread’ sia un bene per tutti. Ma la categoria ‘tutti’ non racchiude gli stessi attori sociali. Si dice: maggiore è lo ‘spread’, maggiore è il rischio di insolvenza di un Paese. I mercati conoscono il fatto loro. Non sbagliano. Bisogna fidarsi di loro.
Il pregiudizio corrente si basa su una teoria semplice e, quindi, di immediata percezione: più il debito statale è alto, maggiore è il rischio di mancato rimborso dei titoli emessi. Non è proprio così.
Lo ‘spread’ riflette il differenziale di rendimento fra due titoli di uguale scadenza sul mercato secondario. Ma quando lo stato – tramite le sue aste – effettua le emissioni dei bonds, lo fa sul mercato primario. L’aspetto rilevante è, qui, che l’aumento dello ‘spread’ non comporta costi ulteriori del debito pubblico già collocato in passato. Il problema può semmai riguardare il rinnovo dei titoli che, a varie scadenze (per l’Italia piuttosto distribuite in là negli anni) vanno rifinanziati. E ciò perché i due mercati “comunicano”, nel senso che se un dato momento i titoli scambiati giornalmente sul secondario offrono un rendimento elevato, il Tesoro può incontrare difficoltà nel piazzamento dei nuovi a un tasso modico. Si tratta tuttavia, come si può intuire – a meno di trovarsi in una congiuntura eccezionale – di un inconveniente tutto sommato gestibile. Gli allarmi che sentiamo lanciare, forse sono esagerati. Essi non sono giustificati dai “fondamentali” del paese, che conta tuttora su un avanzo commerciale – e perciò accumula riserve – e su un elevato risparmio.
L’Italia non necessita di prestiti di emergenza dall’estero.
Resta da mettere in evidenza un punto: i titoli governativi, anziché essere conservati fino alla scadenza, possono essere ceduti prima. Può trattarsi di normali transazioni ma può anche trattarsi di operazioni speculative a brevissimo termine. In questo caso ci troviamo dinanzi a un mercato in cui – a mero fine di lucro – dominano le aspettative circa le variazioni di prezzo dei titoli. In sintesi, lo ‘spread’ è una questione di regolazioni finanziarie fra privati, che può però riverberarsi sulle grandezze della finanza pubblica.
Vi sono dei modi tramite i quali, uno stato, potrebbe comunque sottrarsi ai capricci (e ai particolari interessi) del settore finanziario privato. E potrebbe farlo senza cagionare una recessione. Uno stato – inteso come ente istituzionale – dispone della leva fiscale e della politica monetaria. L’Italia non può fare ricorso a questi strumenti, essendosi legata all’Unione Monetaria Europea. La contese con l’Unione europea vertono solitamente, infatti, sui nostri residui margini di autonomia fiscale, mentre la leva monetaria è stata demandata a un’autorità indipendente (in ossequio a uno dei capisaldi della dottrina liberista).
Quando, come è avvenuto in passato, la Commissione europea annuncia il rigetto di una manovra finanziaria, asseconda la tendenza speculativa. Magari impiega l’arma dello ‘spread’ per ottenere la resa di un governo, condurlo a recedere dalle proprie mire di fiscalità espansiva e riportarlo alla linea ortodossa della Commissione.
Gli operatori di mercato dediti alla speculazione non aspettano altro che notizie in grado di generare aspettative del tipo anzidetto. Un governo che annuncia di deflettere rispetto all’ortodossia e magari ‘sfida’ la Commissione di Bruxelles richiama la speculazione. Così, la speculazione può condizionare la politica di uno stato e il benessere dei cittadini. Tuttavia, non si tratta di una “legge naturale”. La regolazione del settore finanziario spetta alla politica. Se questa non interviene in merito, occorre chiedersi (e chiedere ai responsabili politici) perché. All’apice delle crisi finanziaria del 2012 abbiamo visto che la Banca Centrale Europea è intervenuta massicciamente sui mercati finanziari. Lo stesso è avvenuto durante la pandemia di Covid-19, quando la sostenibilità delle casse pubbliche è stata posta, più che mai, sotto pressione.
Certo, è anche vero che un calo del valore dei titoli di stato incide sull’attivo patrimoniale delle banche che li detengono e può determinare un deterioramento dei prezzi azionari in Borsa. (Torniamo ora alla nozione della categoria ‘tutti’, che non racchiude attori sociali di pari rango).
Gli istituti finanziari e le Borse sono al centro delle preoccupazioni della Commissione Europea. Ma, ancora, ci troviamo nell’ambito degli interessi del mondo finanziario, che quasi mai coincidono con quelli della collettività. Dovremmo prenderne coscienza. Dopo decenni di primazia delle rendite finanziarie, sarebbe tempo che la centralità tornasse ai redditi da lavoro e ai fattori economici reali.
Ma non è ciò che Giorgia Meloni e i suoi Ministri intendono fare. Perciò, reputo comunque pessimo l’attuale Governo.
È vero che la congiuntura economica non è rosea. (Ciò si verifica anche a causa della scellerata politica estera del Governo Meloni). È vero che, al fine di contrastare il rapido deterioramento del quadro economico occorre poter disporre di una certa flessibilità del bilancio, ma le misure che il Governo vuole finanziare con lo scostamento di bilancio non risolvono i veri problemi del Paese.
Esse sono, in particolare, la prima fase della riforma fiscale (che è impostata all’insegna di un’ulteriore riduzione della progressività), il sostegno alle famiglie e alla genitorialità, la conferma del taglio al cuneo fiscale sul lavoro anche nel 2024.
Si tratta di misure della tipica destra nazionalista – contrabbandate per misure sociali – che mancano di genuini intenti redistributivi a favore delle fasce più deboli della popolazione. La piccola proprietà privata e la famiglia tradizionale sono il fulcro delle azioni degli attuali inquilini di Palazzo Chigi.