Con riguardo all’inflazione, la narrazione prediletta della classe politica al potere è che il rincaro dei prezzi va aspramente combattuto perché bisogna tutelare i redditi dei più poveri.
In pratica i rappresentanti del mondo politico, nonché di quello finanziario e industriale, si mostrano compassionevoli e attenti alle conseguenze sociali della dinamica dei prezzi. Pretendono di elevare il contrasto all’inflazione al rango di rimedio che soddisfa l’interesse generale.
Non è esattamente così.
Il 14 settembre la Banca Centrale Europea ha ancora una volta – la decima – innalzato i tassi di interesse. Lo scopo dichiarato è, ovviamente, l’abbattimento dell’inflazione, ritenuta ancora troppo alta.
Va detto, però, che non è così immediato il legame fra aumento dei tassi e calo dei prezzi. Ad esempio, se l’inflazione ha origine esterna, l’incremento dei tassi rischia seriamente di rivelarsi poco efficace.
Quando l’aumento dei tassi “funziona”, ciò implica che l’economia è stata sufficientemente rallentata, per cui sono crollati consumi, investimenti, volumi di beni importati e sono diminuiti posti di lavoro e retribuzioni. (Per chi si ritrova senza alcun reddito non è una grande consolazione sentire Christine Lagarde declamare che il suo obiettivo di far calare i prezzi è andato a segno). Gli ultimi dati economici dimostrano proprio che il ciclo di crescita post-pandemia è arrivato a esaurimento. L’atteggiamento della BCE non è certo estraneo a questo esito.
In realtà, dato che la cura – l’inasprimento della politica monetaria – è peggiore del male proprio nei confronti delle categorie sociali che a parole si dice di voler assistere, il fine da perseguire tramite la lotta all’inflazione deve essere un altro.
Un noto effetto dell’inflazione è quello di ridurre il valore reale delle somme che i creditori devono percepire, a titolo di rimborso, da parte dei loro debitori.
È abbastanza intuitivo identificare le categorie collocate nelle diverse posizioni di creditore e di debitore, così come è agevole immaginarne le rispettive condizioni economiche. Insomma, un incremento prolungato dei prezzi è una iattura per i grandi capitali finanziari. La politica deve intervenire in loro “soccorso”.
Alla fine, così, i benestanti prevalgono sempre. La struttura del potere è tale che qualunque governo ‘populista’, anche immesso nella carica tramite regolari elezioni dopo una campagna “ribelle”, deve alzare bandiera bianca e allinearsi. Il potere sovranazionale – nel nostro caso le istituzioni europee – detiene gli strumenti idonei a disciplinare i governi nazionali.
Stessa sorte è toccata al governo di Giorgia Meloni. Il “popolo” è formato in grande maggioranza da cittadini – lavoratori e piccole imprese – che, almeno a partire dalla stagione dell’austerità fiscale, a ogni tornata elettorale hanno premiato le formazioni politiche “ribelli”, segnatamente anti élites.
In aggiunta all’effetto distributivo che avvantaggia i grandi capitali a scapito del “popolo”, all’attuale governo può far piacere che le manovre rialziste della Bce impattino negativamente – via maggior onere per il servizio del debito pubblico – sullo spazio fiscale che pensava di dedicare ai suoi ceti di riferimento? (Piccolissime imprese, autonomi, ecc., i quali contano su continui sgravi e benefici a suon di condoni esattoriali). Naturalmente no. Può fare qualcosa per opporsi? Ancora un no. Al limite, può rilasciare qualche anòdina dichiarazione di dissenso.
Allora, il “punto di incontro” da esibire agli elettori può essere questo: il governo italiano si sottomette senza darlo troppo a vedere, si impegna a ratificare l’odiato MES riformato (Meccanismo europeo di stabilità) e ad annacquare la già modesta imposta sui profitti bancari; ”in cambio”, l’Unione Europea può promettere di concedere un ritmo più lento per la riduzione del debito (come pare comunque prospettarsi in base al nuovo “Patto di stabilità”) e, magari, qualche aiuto riguardo al dramma degli sbarchi di immigrati.
E i lavoratori? Continueranno a pagare come sempre. Le categorie di piccoli imprenditori care al governo, per compensare l’impotenza di fronte ai grandi capitali possono sempre continuare a rivalersi sui dipendenti. Salari di infimo livello, precarietà in ogni dove, garanzie sempre più remote e sussidi sempre più miseri (come si è visto a proposito dell’abolizione del reddito di cittadinanza, che tanta interferenza esercitava, secondo i “padroncini”, nel mercato del lavoro).
Per i lavoratori, privi di alcuna rappresentanza politica, resta il rifugio della silente protesta nella forma dell’astensione elettorale. Magra consolazione.