Qualunque commento alla strana crisi di governo estiva dovrebbe premettere che una o più rappresentanze politiche parlamentari detengono sempre e comunque la libera facoltà di mettere in discussione l’opera del governo. Il che implica la scelta di votare o non votare a favore di una proposta di legge o di un decreto dell’organo esecutivo e, persino, di revocargli la fiducia. L’istituto della fiducia non pone un vincolo tale da neutralizzare la normale dialettica democratica.
Purtroppo, decenni all’insegna di continue ‘emergenze’ hanno finito per onnubilarci la memoria e la ragione. Complici la povertà culturale dei partiti e la cessione di sovranità a enti sovranazionali, sono stati rovesciati – di fatto – i ruoli che il nostro sistema costituzionale attribuisce ai suoi organi, relegando il parlamento a vassallo del governo. (Laddove, invece, è al parlamento che viene assegnato il ruolo centrale).
La vita parlamentare è da troppo tempo contrassegnata dall’attività di discussione delle iniziative governative. I governi fanno un impiego abnorne della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia. Ponendo la questione di fiducia su un testo di decreto, tutti gli emendamenti eventualmente presentati da membri delle camere decadono e la proposta deve essere votata così come è stata redatta dal governo. Inoltre, una volta chiesta la fiducia, il Parlamento è obbligato ad esprimersi sul testo proposto entro le 24 ore successive.
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Mario Draghi si è dimesso da Presidente del Consiglio dopo avere ricevuto – a larga maggioranza – l’ennesima fiducia del Senato in occasione della conversione dell’ennesimo decreto legge (cosiddetto “Aiuti”). Si è trattato della cinquantacinquesima volta che il suo governo ha fatto ricorso alla fiducia. Draghi ha rassegnato le dimissioni perché il gruppo dei senatori del M5s non ha partecipato al voto. Il governo ha posto la questione di fiducia nonostante fosse a conoscenza della contrarietà del M5s a quel provvedimento. Infatti, i ministri del Movimento di Giuseppe Conte avevano manifestato detta contrarietà in Consiglio dei Ministri.
Draghi, appena confermatagli la fiducia, ha voluto comunque portare alle estreme conseguenze i fatti avvenuti in Senato ma il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha invitato a ‘parlamentarizzare’ un’eventuale crisi. Così, al momento della verifica, il Presidente del Consiglio ha chiamato a raccolta – alle sue perentorie condizioni – l’intero arco dei partiti che avevano fino a quel momento sostenuto il suo esecutivo. (Solo Fratelli d’Italia non ne faceva parte). Unica strada, ricostruire da capo il patto di governo. Tutti dentro nel nome dell’unità nazionale – ancora una volta motivata dallo ‘stato di emergenza’ – oppure la conferma delle dimissioni e magari il conseguente diluvio universale paventato da molti giornali. Insistendo fino allo spasimo nel chiedere l’appoggio di tutte le forze politiche, Mario Draghi avrà tenuto nella debita considerazione l’opportunità d’oro che egli stesso stava offrendo allo schieramento di centrodestra? Infatti, a quel punto è stato fin troppo agevole, per l’ampio ‘partito del voto’, presentare una propria mozione: l’estromissione del M5s dal governo oppure nessun voto di fiducia!
Draghi ha comunque posto la questione di fiducia sulla ‘propria’ mozione, ottenendo però l’abbandono dell’aula da parte delle destre (allettate da una loro probabile vittoria elettorale) e da parte del M5s (che non ha ritenuto soddisfacenti le risposte del Presidente rispetto alla sua agenda politica). Per ironia della sorte, Draghi ha ottenuto ancora un voto di fiducia favorevole, ma da soli 95 senatori. Il Presidente del Consiglio, ora dimissionario e in carica per i soli ‘affari correnti’, durante il suo discorso al Senato ha detto: “Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente. Non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento. Non è possibile ignorarlo, perché vorrebbe dire che chiunque può ripeterlo”. La forma è rispettata: non si ignora il Parlamento.
Ma se emergono dei dissensi, si devono ascoltare le richieste politiche dei dissenzienti, non si deve cercare di mortificarli e forzarne il voto ponendo a tutti i costi la questione di fiducia. Inoltre, se si aggiunge che un gesto di dissenso non si ignora perchè “chiunque può ripeterlo”, si sta insinuando che il governo deve prevenire l’insorgere di voci indugianti o contrarie. Si sta insinuando che soltanto un governo tecnico e di prestigio – in questo caso anche gradito all’establishment europeo – possiede le soluzioni giuste e appropriate per il Paese.
I rappresentanti eletti dal popolo non devono far altro che inchinarsi e assecondare. Facendo leva sulla propria credibilità e sul perenne ‘stato di emergenza’, l’ennesimo salvatore della patria, Mario Draghi, ha ritenuto di poter oltremodo forzare la mano al Parlamento. Ma il rito periodico delle elezioni – per quanto sempre più sterile – è pur sempre vigente. Prima o dopo, i partiti politici devono rispondere al corpo elettorale. Non sappiamo se il governo che scaturirà dalle prossime elezioni politiche sarà migliore di quello appena caduto. Da quanto è accaduto dovremmo tuttavia cercare di trarre qualche insegnamento intorno al modo in cui funziona attualmente la nostra democrazia.