Alla fine del mese di giugno scadrà il cosiddetto ‘blocco dei licenziamenti’ che, si ricorderà, era stato introdotto durante l’emergenza sanitaria al fine di lenirne le conseguenze sul piano economico ed occupazionale. In base al decreto ‘sostegni bis’, dal primo luglio cadrà il divieto di licenziamento. Fino al 31 dicembre 2021 tuttavia, le aziende che dovessero fare ricorso alla cassa integrazione ordinaria, non saranno tenute al versamento dei relativi contributi addizionali, impegnandosi in cambio a non licenziare. (Permane fino al 31 ottobre 2021, invece, il divieto di licenziamento per i lavoratori delle aziende coperte da strumenti ‘in deroga’, che concerne perlopiù piccole imprese e i comparti dei servizi).
Questo ha creato, naturalmente, diversi fronti polemici. Secondo le Confederazioni sindacali si rischiano centinaia di migliaia di posti di lavoro, mentre secondo la Confindustria le imprese devono essere lasciate libere di ristrutturarsi e, comunque, l’economia darà presto segnali di risveglio che si rifletteranno sull’occupazione.
Per cercare di limitare l’impatto del ritorno alla normalità il suddetto decreto prevede altresì strumenti come il contratto di solidarietà e il contratto di espansione. Tuttavia – a parere del sottoscritto –, la questione della possibilità di licenziamento attiene più che altro alla sfera dei ‘rapporti di potere’. Mi riferisco, in particolare, alla forza esercitabile da una parte contrattuale nell’ambito delle relazioni industriali. Si tratta, pertanto, di una ‘questione distributiva’. Se, come lo stesso Centro studi della Confindustria stima, un forte rimbalzo delle attività è imminente, viene da chiedersi perché i rappresentanti delle imprese si concentrino, con una certa vis polemica, sulla libertà di licenziamento.
Ragioni di ‘potere’, appunto.
La protezione legislativa contro i licenziamenti è stata negli ultimi decenni progressivamente indebolita. Il centro della scena è stato occupato dal clima culturale che vede nel mercato e nella massimizzazione del profitto d’impresa l’elemento qualificante dell’attività economica. Di riflesso, le rappresentanze dei lavoratori sono state condannate alla marginalità e a una sostanziale irrilevanza, finendo – sotto molti aspetti – per conformarsi al clima culturale dominante. Ruolo tutt’altro che secondario è stato – ed è tuttora – quello interpretato dalle istituzioni. Si pensi all’adesione all’Unione economica e monetaria europea. Prestando il nostro assenso all’ingresso nel quadro istituzionale europeo, abbiamo aderito a un sistema il cui effetto preponderante è quello di congelare la dinamica dei salari. Ciò potrà suonare anomalo ed eteroclito, ma è così che funzionano le unioni monetarie. Dal punto di vista della teoria economica, il clima neoliberista affermatosi negli ultimi decenni – misinterpretando il fenomeno dell’inflazione degli anni ’70 – ha fatto sì che il compito delle istituzioni dovesse limitarsi al controllo dei prezzi.
Parallelamente, però, si è dato definitivo addio alla possibilità di adottare politiche economiche che favorissero l’occupazione e che consentissero una crescita delle retribuzioni dei lavoratori. Da allora la quota dei salari sul reddito nazionale è stata in costante decremento e l’alta disoccupazione è stata tenuta in conto come un problema di abulia o di ‘professionalità’ mancanti.
Di tutto questo è emblema il Protocollo interconfederale del 1992, stipulato fra governo, sindacati e parti datoriali. Completamente avviluppati nel ‘nuovo’ clima, i sottoscrittori hanno stipulato, per l’avvenire, un patto che avrebbe vincolato le retribuzioni all’inflazione. I contratti avrebbero dovuto traguardare il tasso d’inflazione programmato.
Peccato, però, che da allora in avanti molte imprese si sarebbero concentrate sulla ricerca della competitività e del profitto soprattutto tramite la compressione salariale, da cui anche la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro o, per meglio dire, il diffusissimo precariato. Forse i sindacati hanno creduto che conculcare l’inflazione e tenere a bada i prezzi al consumo avrebbe salvaguardato il potere d’acquisto dei lavoratori. Da un punto di vista superficiale o ‘formale’ ciò è vero, purtroppo però tale impostazione di politica economica non poteva far altro che innescare dinamiche ulteriori. Fino a sfociare in contesti marcatamente deflazionari, elevata disoccupazione e infimo potere negoziale per i salariati. Il lavoro in generale ha proseguito un’inesorabile discesa negli inferi.
La facilità di licenziamento – così come la connessa flessibilità del lavoro – rientrano in tale ‘assetto di potere’. E’ su questo che la Confindustria e le organizzazioni datoriali alzano il tiro ogniqualvolta si profila o interviene un evento che potrebbe, anche interinalmente, alterarlo. I rappresentanti delle imprese hanno ben presente dove si situa il proprio interesse. I lavoratori forse no.