Le elezioni del marzo 2018 che hanno rivoluzionato il parlamento italiano portando dentro le aule la ventata del rinnovamento grillino, sembra che siano state celebrate un secolo fa. Eppure sono passati solo tre anni, che paiono tre secoli dal punto di vista delle vicissitudini politiche attraversate dagli italiani, da quando il Movimento Cinque Stelle col 32% sbancò le elezioni ottenendo un risultato strabiliante, coronando un percorso iniziato dalla piazza bolognese del Vaffa Day del 2007, passando per la fondazione ufficiale nel 2009, e tenendo conto del “lavoro politico”, se vogliamo chiamarlo così, che il comico genovese aveva fatto già dai primi anni Duemila con l’idea dei meetup.
Insomma, una idea di successo, vincente, come si dice oggi, in un lasso di tempo relativamente breve, una novità tale da rompere gli schemi paludati e logori della vecchia alternanza tra centrodestra e centrosinistra, sempre più simili, e deludenti, sul piano economico, con qualche diversità nella considerazione dei diritti civili e nell’immagine complessiva offerta agli elettori.
Quale era l’idea se vogliamo geniale alla base del successo della creatura grillina? Semplice ma complessa allo stesso tempo: portare la carica populista agita nelle piazze reali e virtuali, soprattutto, nel cuore dei santuari del potere, un sogno coltivato spesso nell’intimità o nella scarna rete relazionale di persone dal temperamento rivoluzionario o semplicemente protestatario, e che nella maggior parte dei casi non si realizzerà mai.
A Grillo e Casaleggio il sogno è riuscito. Ed è riuscito perché si sono trovati al posto giusto al momento giusto: gli inconcludenti balletti dell’alternanza tra Berlusconi e Prodi, la Grande Crisi del 2008, la debolezza dell’economica italiana stretta tra la globalizzazione montante e la gabbia asfissiante dell’unione europea e dell’euro, l’aumento delle diseguaglianze e delle concentrazioni di capitale, la perdita del potere d’acquisto del ceto medio, e in generale della consistenza economica di detto ceto, hanno progressivamente annientato la credibilità della politica e delle sue istituzioni presso gli elettori, sempre più stanchi e sfiduciati.
In particolar modo ad essere lesionata irreversibilmente era la credenza nel potere taumaturgico della moneta unica, e degli slogan euroentusiasti, in netto contrasto con le condizioni materiali di milioni di persone in difficoltà, con il disastro di una sanità pubblica depauperata e sotto attacco, di una giustizia negata, e di un lavoro sempre più chimerico e malpagato.
L’esplosione delle povertà, vecchie e nuove, ha fatto il resto: il 4 marzo 2018 il M5S trascinato da potenti correnti d’opinione stravince al sud, spesso oltrepassando il 50%, disarticola il centro Italia una volta rosso, sbanca nelle isole e mette a segno colpi importanti al nord, pur se contrastati dalla destra radicata in quelle regioni. Insomma, ottiene una grande vittoria politica, il populismo aveva sfondato il muro eretto della “politica competente”, tanto che i più entusiasti di loro parlarono di “aprire il parlamento come una scatola di tonno”.
Cosa è rimasto di quei proclami e di quei propositi bellicosi? Poco o nulla, in verità. A parte il reddito di cittadinanza, Quota 100, oggi cassata, e lievi ma non ininfluenti migliorie al Decreto Dignità, tutte le parole d’ordine del movimento di Grillo sono state progressivamente abbandonate, anzi, sono state rivoltate nel loro contrario: la guasconata sul referendum sull’euro si è tramutata nell’accettazione della moneta unica e del quadro di compatibilità economiche e finanziarie conseguenti, le dichiarazioni di guerra alla tecnocrazia europea e alla finanza sono state accantonate in favore di una piena integrazione nei meccanismi eurofinanziari, la scelta di riconoscere la Palestina ha lasciato il campo al sostegno acritico alla peggiore destra israeliana, e il “mai col partito di Bibbiano” nell’alleanza organica con il Pd.
Insomma: una rotta su tutta la linea, dal populismo violento agitato sui social e nelle piazze siamo passati ai modi felpati e alle grisaglie ministeriali tipici della prima repubblica, dal Vaffanculo Day alla Dc 2.0, una rivoluzione all’incontrario, un passo del gambero, culminato nell’accettazione del governo Draghi, il banchiere della tanto odiata, un tempo, Goldman Sachs.
In conclusione, potremmo parlare di fallimento dell’istanza populista, che al livello di retoriche e narrazioni, il famoso oggi storytelling, ha saturato lo spazio pubblico, costringendo tutti gli attori politici, senza distinzioni, ad utilizzarla per catturare emotivamente l’elettorato, sempre più indifferente e distratto, bisognoso di continue scosse e sollecitazioni, capace sì di vincere le elezioni, ma incapace di governare realmente i processi complessi di una società moderna.
Il populismo ha imposto nelle stanze chiuse del potere temi lasciati nel dimenticatoio, e questo è stato un suo merito indubbio, ma si è dimostrato inefficace una volta al governo, non riuscendo, o non volendo, uscire dagli slogan urlati per affrontare concretamente le sfide epocali che ci si parano di fronte, anche perché sprovvisto di vera cultura critica e di personale politico adeguato. Pertanto, dismessi gli abiti del rivoluzionario civico non è rimasta che la supina integrazione nel sistema una volta avversato.