Il Presidente del Consiglio Mario Draghi, il Ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta e le maggiori Organizzazioni sindacali hanno firmato un ‘Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale’, ma è presto per poter affermare che si tratti di una vera svolta.

Negli ultimi decenni – durante l’ultimo in particolare –, anche prendendo a pretesto una grave crisi economico-finanziaria internazionale, la PA è stata considerata alla stregua di un mero costo da abbattere. Una scelta ideologica e politica, rivolta alla restrizione tout court del perimetro di intervento dello stato. Una scelta che il Paese ha pagato con una ostinata condizione di stagnazione. (Quando non si è trovato in recessione).

Nell’intesa sottoscritta il 10 marzo, viene attribuito alla PA il ruolo di motore dello sviluppo. Il che, se si volge l’attenzione al deludente funzionamento del nostro sistema ad economia di mercato, è comprensibile e fondamentalmente corretto. Bisogna tuttavia intendersi. Il ruolo del ‘pubblico’ può essere declinato in vari modi. E’ in proposito positivo l’accento che il documento pone sulla semplificazione e, soprattutto, sulla creazione di lavoro al servizio del pubblico e sull’investimento nelle professionalità e nella digitalizzazione.

Persino i rinnovi contrattuali – del quale il precedente governo si era scordato nonostante il venire meno dei consueti ‘vincoli di spesa’ – sono rientrati nell’agenda politica. Ma senza un fine cosciente, consistente in un mutamento di paradigma, i buoni propositi si arresteranno e non andranno oltre le colonne d’ercole delle apparenze retoriche.

La novità di impostazione del 10 marzo potrebbe, cioè, essere soltanto un risultato provvisionale della contingenza. Da più di un anno il Paese si dibatte in una emergenza epidemica che ha scoperchiato molte gravi carenze che la suddetta posizione ideologica – meno stato e più privato – aveva generato. (Una su tutte: la sanità pubblica). Sono così state aperte le porte a una serie di interventi che l’ortodossia austeritaria, basata sul motto ‘non ci sono i soldi’, aveva sempre negato.

L’innominabile è stato pronunciato e perfino attuato. E poi, perfino l’Europa – per cercare di salvare se stessa dalle sue regole ‘depressive’ – ha improvvisamente consentito di ‘spendere’. (Sebbene le risorse messe a disposizione con il ‘Recovery fund’, sul quale tutto si punta, siano assolutamente insufficienti rispetto alla profondità della recessione da pandemia in corso).

Quindi l’apertura del governo in carica, effettuata all’insegna del riconoscimento che pare ora tributarsi ai compiti della macchina pubblica, potrebbe avere il fiato corto. Peggio ancora se lo sbandierato rinnovamento dovesse ridursi a un ulteriore consolidamento del rapporto ancillare che la PA già ricopre rispetto agli interessi privati.

Se, per esempio, il sempiterno obiettivo di rendere efficiente la pubblica amministrazione – magari identificando l’efficienza con la velocità di approvazione di autorizzazioni ai privati – fosse ancora subordinato a un presunto benefico effetto sul mercato, ci si ritroverebbe al punto attuale. Da molti anni è sufficiente cominciare un’attività presentando una “dichiarazione di inizio attività” oppure eseguire interventi edilizi presentando una “segnalazione di inizio attività”, ma gli effetti, in termini di crescita e sviluppo, sono stati impercettibili.

Altro, invece, sarebbe investire nei servizi pubblici – compresi quelli di rilevanza economica -, potenziandoli, procedendo alle relative nuove assunzioni e magari ponendo fine per davvero alla piaga del lavoro precario, a cui anche lo stato ha fatto ampiamente ricorso. (In qualità di pessimo datore di lavoro, lo stato ha poco da invidiare ai privati). Servirebbe un cambio di “missione”.

Gli sforzi dovrebbero, cioè, venire concentrati in un ritrovato protagonismo del settore pubblico. L’investimento in una Pa migliore dovrebbero essere il prodromo per il potenziamento dell’intervento dello stato in economia, al quale dovrebbero essere abbinato. La finalità dovrebbe essere quella di cominciare a contrastare le disuguaglianze socio-economiche che, nel mercato, inevitabilmente si vengono a formare. Il maestro di Mario Draghi, Federico Caffè, avrebbe approvato.

Inoltre, bisognerebbe porre un argine allo sfruttamento privato dei beni pubblici di rilevanza economica. (Ad es., la Borsa dovrebbe essere utile al procacciamento di capitali da tramutare in investimenti, non dovrebbe essere il luogo in cui vengono quotate aziende a caccia di facili dividendi, al contempo concessionarie di servizi pubblici essenziali).

Infine, in occasione dell’accordo fra il Governo e i Sindacati del 10 marzo è stato utilizzato quale termine di paragone l’accordo del luglio 1993. (Il Presidente del Consiglio era Carlo Azeglio Ciampi). Anche qui occorre qualche specificazione: ciò che è stato propagandato come un “accordo di sistema”, siglato in nome di un interesse comune “superiore”, non ha tardato a rivelarsi nella sua essenza. Non siamo “tutti sulla stessa barca”.

L’accordo del luglio 1993 poggiava sui benefici attesi della disinflazione. La stipula dei contratti di lavoro sarebbe stata subordinata al regime di controllo dell’inflazione. Ovvero, il contenimento della dinamica salariale, unitamente a quello della spesa pubblica, avrebbe aumentato la competitività di prezzo del sistema Paese e il fattore esterno – il mercato estero – avrebbe più che compensato il sacrificio interno.

Naturalmente, sullo sfondo si stagliava il simbolo dell’Unione europea nella sua versione di Maastricht. Tale scommessa è miseramente naufragata e – come detto – il Paese ha pagato un prezzo di ventennale stagnazione, retribuzioni costantemente al palo, lavoro temporaneo e disuguaglianze crescenti.

Il vincolo esterno non ha giovato. Il calo della quota salariale sul reddito complessivo ha colpito i lavoratori e aiutato le imprese maggiormente legate al mercato estero. Si tratta di un aspetto che i Sindacati ancora si attardano a comprendere appieno. Va riconosciuto che – per il momento – non si parla di tagli, ma in mancanza dell’attuazione di una vera alternativa, per la quale bisognerebbe esercitare una certa pressione soprattutto a livello europeo, il Paese resterà nella condizione attuale. Con tutte le sue contraddizioni. Anche dopo che la pandemia sarà superata.