Il 15 aprile il Consiglio dei Ministri ha deliberato il Documento di economia e finanza 2021. Nella sezione dedicata all’analisi e alle tendenze della finanza pubblica si prevede che, a fine 2021, il rapporto fra debito pubblico e Pil sfiorerà il 160%. La domanda che tanti già si pongono e che – presto o tardi – darà adito alle consuete richieste di procedere alla riduzione del debito è: come faremo a cavarcela con un rapporto fra debito pubblico e Pil che a fine anno raggiungerà quasi il 160 per cento? Vi è in proposito un punto che merita di essere evidenziato: il gioco è stato scoperto. Per fronteggiare la crisi pandemica i governi hanno messo mano al portafoglio. Per finanziarsi hanno emesso titoli in quantità notevolissima e la temuta reazione dei mercati non si è realizzata.
Ora, non è più possibile concepire come si possa – prima o dopo – tornare alla solita austerità. Quello che è limpidamente emerso è che la solvibilità di un paese è una scelta politica. Le banche centrali hanno dimostrato di poter controllare l’andamento dei tassi di interesse (fattore fondamentale al fine della sostenibilità del debito pubblico) e, se vi è la volontà, di poter mettere le briglie alla speculazione finanziaria. (Nel 2011 il nostro rapporto debito/Pil era di gran lunga inferiore rispetto a quello odierno – 120% – eppure, a causa dell’inerzia delle istituzioni europee, subimmo un tremendo attacco speculativo). Pertanto la vera domanda da porsi è: avrà senso tornare a farsi imporre la disciplina dai mercati, la quale conduce immancabilmente all’austerità? (Bisognerebbe anche chiedersi se è democratico concedere una simile prerogativa ai mercati).
Arrivati a un certo momento, i sacerdoti dell’austerità cominceranno a ripetere all’unisono e all’infinito il loro “collaudato” armamentario di argomenti: il debito dello stato è un macigno che grava sulle prossime generazioni; e poi, siccome il debito dello stato è simile a quello di una famiglia, proprio come una famiglia gravata da un eccesso di debiti finiremo per fare fallimento. Ebbene, niente di tutto questo si approssima alla realtà. Si sente spesso dire che ogni neonato ha già una montagna di debiti, tralasciando però che a ciascun debito corrisponde un credito, e quindi si ereditano anche i crediti. Inoltre, si dimentica che con il debito si costruiscono infrastrutture, scuole, ospedali, ecc., ossia “capitale” il quale va anch’esso ai figli e ai nipoti. E se si organizzano servizi pubblici, come la sanità, questi andranno a maggior beneficio di chi percepisce redditi modesti e non è perciò in grado di accedere ai servizi privati.
Tutt’al più, il debito comporta effetti redistributivi: si può pensare che, come i loro genitori, i figli dei possessori di titoli del debito potranno contare su una rendita mentre altri non potranno godere dello stesso beneficio. Ma anche qui si ricade nel campo delle scelte politiche. Se un governo decide di farlo, può aumentare la progressività del sistema fiscale e riequilibrare la situazione. (Purtroppo, le scelte politiche degli ultimi decenni sono state di segno contrario). Ma soprattutto, quando si paventa il rischio del fallimento, si tralascia di considerare che il deficit del bilancio pubblico (a cui consegue il debito) è uno strumento di politica economica, dal quale dipende in buona parte la crescita del Pil e – di riflesso – la sostenibilità di medio-lungo periodo del debito. La differenza fra una famiglia che – nel tentativo di far quadrare i conti – riduce la spesa e lo stato, è che quando quest’ultimo taglia la propria spesa… moltissimi individui perdono il lavoro!
Abbiamo visto gli effetti del consolidamento di bilancio ai tempi di Mario Monti. I provvedimenti di contrazione della spesa e gli incrementi di tasse hanno deteriorato il rapporto debito/Pil, perché nell’intento di compiacere i mercati (la famosa fiducia da riguadagnare) è stato abbattuto il Pil. Se la politica fiscale in deficit è impiegata oggi al fine di tentare la stabilizzazione del ciclo economico e il debito è controllabile, non si trova giustificazione del motivo per cui tale strumento non sia stato impiegato – in particolare – nel 2011-2012. Sarà quindi difficile, nell’immediato futuro e forse anche oltre, trovare giustificazioni credibili per non farvi ricorso.