Le elezioni politiche generali svoltesi domenica 25 settembre hanno sancito il trionfo della destra guidata da Giorgia Meloni, con al seguito il sempre più spompato Salvini, politicamente ed elettoralmente, e l’appendice più moderata dell’eterno Berlusconi, che, però, giocherà a fare l’alleato indispensabile.
La vittoria della Meloni e di Fratelli d’Italia è chiara e indiscutibile, avendo cannibalizzato gli alleati, soprattutto la Lega, è riuscita a fare da traino per tutta la coalizione arrivando al 26,01 alla Camera, e per un partito che nel 2013 aveva preso un modestissimo 1,96% è un risultato a dir poco strabiliante. Il 43,82% della coalizione di destra-centro, la definizione più esatta del vecchio centrodestra, è merito suo. Certo, non è quel terremoto elettorale che i piddini paventavano, ma è comunque un risultato che li mette al riparo da sorprese esterne, ora la destra non ha più alibi, ha i numeri per governare. Numeri che, invece, drammaticamente mancano al Pd e alla sua coalizione abborracciata in fretta e furia ad agosto, dopo la decisione scellerata, per i destini elettorali dei dem, di recidere il rapporto politico con il M5S che avrebbe consentito la contendibilità della vittoria. E dopo la sceneggiata del tentativo abortito di accordo con Calenda.
Il Pd ha più o meno la stessa percentuale del 2018, il 19% alla Camera, e sotto tale soglia al Senato, anche se di pochissimo, e in numeri assoluti 800mila voti in meno, ovvero: questo partito, questo gruppo dirigente, con annessa piattaforma politica e visione del mondo, non ha nessuna capacità attrattiva all’esterno del perimetro classico del proprio recinto elettorale, riesce a fidelizzare i “suoi”, sotto la scure dell’eterna minaccia fascista, ma non interessa nessuno dei mondi sociali complessi e variegati che costituiscono la trama sociopolitica del paese. Mentre in 9 anni, meno di un decennio, Fratelli d’Italia passa da meno del 2% al 26%, il Pd a 15 anni dalla sua fondazione, un caso di anacronismo politico e ideologico da manuale, costituire un partito schiettamente liberista e globalista proprio nell’innesco della Grande Crisi del sistema neoliberale, passa dal 33% al 19%, rimanendo pressocché allo stesso livello nelle elezioni del 2018 e del 2022. Un fallimento politico, culturale, strategico di proporzioni epocali, ma, nonostante questo, siamo certi che anche stavolta lo stato maggiore dem non capirà nulla della situazione, e rimarrà tenacemente abbarbicato ai propri errori, come una confortevole coperta di Linus ideologica. Basta vedere i nomi che si fanno per il dopo Letta: Bonaccini, il rude cowboy emiliano tutto aziendalismo e autonomia differenziata, e la Schlein, l’ennesima foglia di fico per garantire la sinistra interna. Riposino in pace.
Discorso diverso per Conte e per il M5S, è vero che dimezzano e oltre i voti, rispetto al 2018, un 33% inarrivabile come se parlassimo di un’altra era politica, ma il 15% odierno è oro per un movimento sotto attacco da parte di un arco ampio di forze politiche e poteri economici, e che mirava se non proprio alla sua estinzione politica quantomeno alla sterilizzazione di una formazione che aveva osato porre dei limiti alla tracotanza del sistema economico e delle relazioni internazionali imperniate sulla fedeltà atlantica. In questo senso Conte ha operato una rimonta, grazie al prestigio personale indubbio, altrimenti senza di lui l’eclisse del partito di Grillo sarebbe stata certa. Non solo, rispetto alla Lega, che cade e arriva all’8%, un disastro per Salvini, perdendo pure al Nord, il 15% del M5S ha il pregio del radicamento territoriale in un’area del paese, il Mezzogiorno, completamente abbandonata dal discorso pubblico e dai partiti tradizionali: oggi il M5S è il primo partito del Sud.
Al risultato del movimento di Conte si lega l’analisi sui cosiddetti movimenti “anti-sistema” e sulle forze politiche alternative al liberismo: Italia sovrana e popolare e Unione popolare non si sono schiodate dall’1% e spicci, evidentemente lo spazio di contestazione all’ordine vigente è stato saturato dai pentastellati e non c’è più un bacino per chi vuole correre su binari autonomi, come l’Italexit di Paragone. Ovviamente, su tutto, c’è stata l’astensione monstre degli elettori italiani: ha votato “solo” un 64% scarso degli elettori, e questo pesa e molto sui dati reali, ma la democrazia alla fine va avanti lo stesso, gli astensionisti non saranno mai un partito con una intenzionalità politica chiara, con un programma e degli obiettivi, e chi è andato a votare e ha espresso una indicazione ha sempre ragione, questa è la legittimità dei vincitori.