I governi tecnici, ovvero l’Italia al tempo del vincolo esterno. Dalla caduta del Muro di Berlino, con la conseguente fine della Guerra Fredda, il confronto tra le due superpotenze, Usa e Urss, e i rispettivi sistemi di alleanze, la Nato e il Patto di Varsavia, che aveva caratterizzato in maniera totalizzante la storia del pianeta dalla fine del secondo conflitto mondiale fino al 1991, con lo scioglimento ufficiale dell’Unione Sovietica, il nostro paese si è come riscoperto orfano.
Senza più una ragione sociale nel concerto delle nazioni, si sarebbe detto un tempo, sprovvisti di una missione nella nuova era che precipitosamente stava facendo irruzione sulla scena della Storia, quella con la maiuscola, la classe dirigente del tempo trovò naturale perseguire lo sbocco europeo, cioè la costruzione insieme alle altre grandi nazioni del continente di una inedita unione economica, monetaria, commerciale, istituzionale e, speravano i protagonisti della politica degli anni Novanta, politica, una sorta di superstato in grado di esercitare un ruolo egemonico in una collaborazione competitiva, diciamo così, con gli Stati Uniti, per confrontarsi da pari con gli emergenti Paesi Asiatici.
In definitiva, la morente classe politica della agonizzante Prima Repubblica, di concerto con la nascente politica della Seconda Repubblica, dagli esiti incerti, non trovò di meglio, anche per la contemporanea fine delle grandi narrazioni ideologiche, che portare di peso gli italiani nel faticoso processo che avrebbe realizzato una sempre maggiore integrazione fra le nazioni europee, con tutti i nostri problemi e difetti nazionali mai risolti, con il gravame di una economia in difficoltà nella competizione continentale e globale, e la prospettiva di un’abdicazione di ogni velleità di autonoma politica monetaria, con l’adozione dell’euro.
Di più: l'”europeismo”, dopo la fine dell’eresia comunista e la vittoria del capitalismo reaganiano, diventò in breve tempo la nuova religione civile del paese, consacrata dal dogma politico del Sacro Vincolo Esterno, l’unica modalità operativa per guidare gli italiani, un popolo storicamente riottoso di gabbie normative e catene etiche, insofferente di regole e discorsi moralizzanti.
A quel punto, però, la “normale” politica non bastava più, il fisiologico funzionamento delle consuete dinamiche di una democrazia parlamentare di natura pattizia e concertativa, non poteva bastare più, per costringere il paese e la sua economia nella soffocante costruzione di Maastricht serviva altro, una cura da cavallo per portare l’Italia mediterranea all’aggancio con i Paesi del Nord: i governi tecnici, una nuova figura della politica impolitica italiana, uno strano ibrido partorito dai vari inquilini del Quirinale che si sono succeduti, e che hanno rappresentato un Colle sempre più interventista, in tandem con le autorità della tecnocrazia europea.
Cominciò Giuliano Amato, anche se, per la verità, il suo era ancora un governo formalmente politico, ma nei fatti si comportò come un governo tecnico anticipandone i temi di fondo: manovre finanziarie monstre, la prima da 30mila miliardi delle vecchie lire, e la seconda da 90mila, per “risanare le finanze pubbliche”, un primo intervento, di una lunga serie, fino ad oggi, sulle pensioni, e l’indimenticato prelievo forzoso, retroattivo, sui conti correnti del 6 per mille.
Il tutto sull’onda dell’emergenza nazionale, il vero tratto strutturale unificante della vicenda italiana degli ultimi trent’anni, uno stato d’eccezione permanente che ha mutato nel profondo l’antropologia della nazione, facendo dell’Italia un laboratorio privilegiato della colonizzazione liberista e marcatista, fondata sulla teologia della competizione continua.
Ovviamente perché “l’Europa ce lo chiede”. Proseguì Lamberto Dini, il primo vero e proprio governo tecnico, passato alla storia per la famigerata riforma delle pensioni, che traghettò il nostro sistema dal retributivo al contributivo, sempre perché l’Europa ce lo imponeva, e noi subito a seguire, come l’intendenza, siamo sempre stati degli inguaribili esterofili. Ma il punto cruciale arrivò con il governo tecnico presieduto da Ciampi nel 1993, chiamato sulla scia del terremoto giudiziario e della guerra terroristica portata avanti dalla mafia militare di Riina all’impegno pubblico da Scalfaro, altro presidente molto presente sulla scena politica nazionale.
Certo, il governo Ciampi ebbe, anche per la sensibilità dell’ex banchiere centrale, una sorta di profilo politico, sostenuto dalla maggioranza del parlamento dell’epoca, me nella sostanza il presidente del consiglio si mosse senza ascoltare segretari di partito e senza consultare i gruppi parlamentari, con il solo appoggio del Colle.
E il suo intervento fu molto incisivo, dismise le partecipazioni statali, avviando la completa privatizzazione del settore bancario e postale, introdusse quella che con un eufemismo si sarebbe chiamata la politica dei redditi, ovvero la compressione di salari e stipendi, e diede un impulso decisivo all’integrazione del sistema giuridico ed economico del paese nella nascente unione monetaria e politica europea.
Lavoro che continuò nei governi dell’Ulivo occupando, di fatto commissariandola per farne un territorio extra politico, impermeabile alle pressioni partitiche, la decisiva casella del ministero del Tesoro, una piattaforma privilegiata per guidare il progressivo processo di “europeizzazione” dell’Italia, a colpi di diminuzione del debito pubblico, privatizzazioni e liberalizzazioni, e rispetto dei parametri, almeno per titoli.
La presidenza della repubblica fu il coronamento di questa “Lunga Marcia” da Roma a Bruxelles, dall’Italietta della propaganda autorazzista all’Italia al carro del gigante ordoliberista tedesco, dal paese riottoso di regole e codici alla nazione inquadrata, ligia e obbediente, dai Trattati neoliberali. Nel 2011, sulla scorta dell’impallinamento di Berlusconi per opera di Trichet, e Draghi, sempre lui, la Via Crucis dei governi tecnici fondati sulla continua evocazione dell’emergenza, vera molla per costringere gli italiani sulla strada del completo smantellamento di ogni parvenza di statualità e di welfare, di diritti e di tutele, raggiunge un’altra stazione dolorosa: il Governo Monti.
Il governo della tristemente famosa riforma Fornero, dal nome della ministra piangente che con la lacrima pensava di risolvere il dramma degli esodati, scandalo allucinante in salsa cilena che colpì lavoratori lasciati in mezzo al guado dalla ministra suddetta, un’ennesima riforma delle pensioni che accelerò e completò il passaggio definitivo al sistema contributivo, che produrrà pensioni da fame nel prossimo futuro con masse di anziani impoveriti che dovranno rivolgersi alla Caritas, dalle consuete torture ai danni dei lavoratori, e dal declassamento ad enti inutili delle province, in omaggio al populismo montante.
Oggi, con il Messia Draghi al potere, circondato da imbelli ministri e segretari di partito che gli hanno ceduto volentieri lo scettro, anche perché non sapevano che farsene, dovendo solo eseguire gli ordini di Bruxelles, siamo alla svolta che prelude a strade definitive, alla soluzione finale del problema politico italiano: la definitiva spoliticizzazione del paese, il tramonto di ogni barlume di pensiero alternativo e critico, la vittoria totale di una concezione amministrativa ed economica dell’arte del governo, con la morte dell’agire politico, fondato sulla scelta tra opzioni valoriali e di visioni etiche differenti.
Dal ritorno alla Fornero, ordinato, come ha detto il ministro Franco, all’irrisione del banchiere del “processo elettorale”, che gli è indifferente, alla compressione di ogni spazio di agibilità politica dei ministri costretti ad approvare, vedi Pnrr, provvedimenti che non hanno manco letto, anzi, come ci informa la stampa confindustriale, riscritti dai tecnici ad insaputa di parlamentari e politici, all’espulsione dai centri delle città della possibilità di manifestare il dissenso, siamo ad un cambio di fase foriero di sventure per il fu Belpaese.
Siamo alle soglie di una sorta di eternizzazione del Governo Tecnico, con un Draghi che anche dal Quirinale, come dice Giorgetti, può guidare il paese, con la benedizione di giornalisti, alti prelati, imprenditori e generali, tutti uniti nell’acclamazione del Tecnico Eterno, vera soluzione ad ogni problema, come ci informa quotidianamente il Corrierone, il megafono degli umori profondi del potere italiano. Povera Patria, laboratorio europeo e mondiale di una possibile morte della politica che dovrebbe inquietare tutti.