Da qualche anno va per la maggiore negli ambienti politici e intellettuali, anche al di fuori dei normali canali di visibilità una certa propensione a vedere con maggior comprensione la moderazione (o più propriamente censura) dei maggiori canali social. YouTube, Twitter, Facebook e quant’altro hanno potenti algoritmi che bloccano o intervengono su determinati contenuti.
Certamente viviamo un era in cui c’è una parte abbastanza importante di informazione veicolata da improbabili soggetti. Il proliferare di teorie cospirative e complottistiche sono portate alla ribalta presso i media mainstream come uno dei mali del nostro tempo.
Ma lo sono realmente? Rileggendo la storia del giornalismo non sembra che il problema sia nato con i social. Anzi la commistione di interessi tra editori, imprenditori e politica ha una trama piuttosto lunga e tacitato non pochi scandali.
Qualche settimana fa, sulla rivista Jacobin (quella edita negli USA), Branko Marcetic in un suo articolo ha fatto il punto della situazione, ma da un’ottica un po’ diversa da quella che siamo abituati a sentire. Certo, i problemi derivanti da una informazione viziata e in alcuni casi delirante rimane, ma c’è un altro aspetto che deve essere tenuto in debito conto quando parliamo di censura: i soldi e la diffusione.
Per poter arrivare al grande pubblico, ieri come oggi, i vari autori hanno bisogno di piattaforme con grandi numeri di utenti, è questo il caso sei social. Dedicarsi a produrre e distribuire contenuti ha un costo: principalmente il tempo, ma anche i mezzi o i servizi che si devono utilizzare per ottenere un prodotto accattivante per il vasto pubblico non sono esenti da un impegno finanziario rilevante.
La monetizzazione che certi servizi offrono oltre alla loro visibilità tramite la ricerca (vedi Google) diventano fattori importanti per il successo o meno della comunicazione. Ma come abbiamo osservato sopra, da un po’ di tempo, si è affermata una moderazione dei contenuti piuttosto pervasiva. Una pervasività che è andata a discapito anche di chi si pone, con valide argomentazioni, contro il potere politico ed economico.
Oggi per salvare le apparenze non si parla di censura ma di applicare canoni corretti per l’informazione. Naturalmente secondo i canoni dei soliti noti. Notiamo quindi che tutta quella parte di attivismo sociale che ha come principale obiettivo polemico determinati interessi politici ed economici vede fortemente sacrificati i suoi margini di manovra.
Bisogna pertanto soppesare bene, quando ci si oppone a visioni complottiste o ad informazioni palesemente distorte o deliranti, che questa legittima denuncia non vada a rinforzare il controllo di chi già oggi dispone di mezzi finanziari ingenti o di un potere interdittivo nel campo della comunicazione di massa. Perché altrimenti il rischio concreto è di tacitare tutte quelle parti di società che cercano di costruire un’alternativa ragionevole allo status quo.