Coerentemente con quanto già riportato, emerse una genuina simpatia di Mattei per i paesi sottosviluppati dell’area mediterranea. Un Paese produttore – pensava – aveva diritto ai benefici derivabili dalle risorse del sottosuolo di cui è proprietario. (La medesima posizione che il manager marchigiano aveva sostenuto e perseguito a proposito del gas metano rinvenuto in Pianura Padana, la “cassaforte” dell’Eni).

Negli anni ’50 Mattei contrattò con l’Iran, l’Egitto ed altri paesi arabi, concessioni e collaborazioni che – oltre che riservare ai governi detentori delle risorse fossili proventi pecuniari migliori rispetto a quelli offerti dalle “Sette Sorelle” –, anteponevano al profitto del concessionario la partecipazione all’intrapresa nonchè lo sviluppo del paese concedente. (Anche sul piano dell’organizzazione industriale e su quello tecnologico).

Il cartello internazionale aveva fissato le rispettive quote di mercato al di fuori degli USA per poter perseguire una politica collusa di controllo della produzione e degli investimenti. Il contenimento dell’offerta e – a seconda della convenienza – dei progetti di investimento assicuravano possibilità di aumento dei profitti di oligopolio.

L’ accordo prevedeva anche l’impegno a condurre separatamente, in tutto il Medio Oriente, le esplorazioni del sottosuolo. (L’Agip era fuoriuscita dalla partita del petrolio in Medio Oriente fin dal 1936; vi erano rimasti americani, francesi e inglesi). Nel 1954 vi fu l’incontro fra Mattei e Nasser. Il “petroliere senza petrolio” andava in cerca di greggio a costo moderato. Ma non solo: egli aveva veramente a cuore la causa della decolonizzazione.

L’Egitto si era appena liberato dal giogo coloniale e aveva abolito la monarchia. E Nasser, come Mattei, aveva in uggia il cartello petrolifero internazionale (Standard Oil-Esso; Anglo Iranian Oil Company-Bp; Socony Vacuum-Mobil; Standard Oil of California-Chevron; Texas Oil Company-Texaco; Gulf Oil Company-Gulf; Royal Dutch Shell) che lucrava con lo sfruttamento della risorsa grezza mediorientale.

L’Eni venne subito accusata di ordire il distacco dell’Italia dal blocco occidentale, mentre, come sappiamo, l’interesse di Mattei era rivolto all’ingresso del proprio Paese nel mondo sviluppato e, congiuntamente, alla prosperità dei popoli ex-coloniali. Era necessario, per ambo gli scopi, svincolarsi dal potere oligopolistico delle “Sette sorelle”.

Con l’Egitto, l’accordo convenuto per le prospezioni e le estrazioni nei campi del Sinai prevedeva che il Paese proprietario delle risorse avrebbe tratto il 75% dei benefici di impresa. Un tipo di patto molto più vantaggioso, per il Paese “ospitante”, al cospetto degli accordi 50%-50% fino ad allora conclusi dalle compagnie del cartello in Medio Oriente. L’Eni poteva così aggirare le forche caudine delle “Sette sorelle” e accedere direttamente alle fonti di greggio.

Oltre alle tipiche strutture da terra ferma (come quelle a El Belaym) ben presto comparvero le prime piattaforme galleggianti nel Golfo di Suez, fra l’altro prodotte dalla stessa Eni grazie all’ingegneria autoctona dell’azienda di stato. Lo schema 75%-25% venne applicato anche in occasione del contratto con l’Iran e stava per esserlo in occasione del preventivato accordo con la Libia. (All’ultimo momento, una manovra degli americani, sempre preoccupati della concorrenza dell’Eni, fece sfumare l’affare).

Secondo Mattei il Paese concedente è un vero “partner” – un socio attivo – con diritto alla effettiva partecipazione alla gestione degli affari petroliferi e allo sviluppo di competenze proprie, oltreché all’incameramento della quota di spettanza delle “Royalties”. (In pratica, si prospettava l’opportunità, per il paese produttore, di “fare” industria petrolifera e non di limitarsi al ruolo di mero locatario).

Il manager italiano credeva davvero nell’affrancamento del mondo arabo dalla condizione di inferiorità strascico del colonialismo. Può darsi che egli, uno dei protagonisti della ricostruzione post-bellica, ravvisasse una sorta di parallelismo fra i Paesi in fase di decolonizzazione e il proprio, il quale abbisognava di riprendersi dalla disastrosa avventura in cui il Fascismo l’aveva precipitato.

All’inizio degli anni ’60 l’Eni appare ormai come una sorta di riferimento e di appoggio rispetto alle vecchie strutture coloniali occidentali. Mattei si pronunciò smaccatamente a favore del movimento indipendentista algerino. L’indipendenza del Paese nordafricano andava persino anteposta a proposte di ingresso in consorzi internazionali per lo sfruttamento dei giacimenti nel Sahara algerino. (L’Eni rifiutò un’offerta franco-americana di simile tenore. “Siamo ben visti in Iran, Egitto, Tunisia, Marocco, Ghana, proprio perché non abbiamo colonie”, ebbe a dire il suo Presidente).

Seguirono minacce di morte da parte dell’OAS, un’organizzazione terroristica francese veementemente contraria alla prospettiva di perdita della colonia. (Poi, l’anno seguente, il Presidente De Gaulle si rassegnò e sancì la fine del conflitto e l’indipendenza dell’Algeria). Mattei era fautore, insomma, di un rapporto decisamente “post-coloniale” fra Paesi produttori e Paesi consumatori, ponendosi in posizione di neutralismo rispetto alla logica dei blocchi derivante dalla “Guerra fredda”.

Non deve meravigliare, così, l’eruzione dello “scandalo” del petrolio sovietico. (Anche se, in realtà, vi erano altri Paesi occidentali che si rifornivano di greggio sovietico). Nel 1957, quando era ormai quasi perfezionato, svanì – per interposizione di parte USA – il contratto con la Libia. Mattei, sempre desideroso di portare energia in Italia a costi concorrenziali, si rivolse allora a Mosca. Il contratto – stipulato nel 1960 – fu veramente eccellente: milioni di tonnellate di greggio ad un prezzo molto conveniente.

Ma non solo: l’Eni piazzò in contropartita – oltre al prezzo del petrolio – forniture di gomma sintetica e sistemi di controllo per i metanodotti. (Ancora raffinata tecnologia “di casa”, che i Russi non possedevano). Naturalmente, piovvero furiose accuse da ogni latitudine. Mattei nemico delle compagnie internazionali private – concentrato nel sottrarre loro quote di mercato –, che avrebbe aperto nuove strade ai paesi consumatori, che avrebbe avvicinato l’Italia ai paesi comunisti. (La reazione dell’Ambasciata americana a Roma fu particolarmente risentita).

Per l’establishment, sia nazionale sia in generale del blocco occidentale, questa sequela di rapporti “poco ortodossi”, allentava fino a minacciare le relazioni sottese al Patto Atlantico.Ma non era esattamente così. Mattei – sempre in un’ottica di sviluppo del proprio Paese e di relazione commerciali eque – trattava con tutti, anche con le maggiori compagnie occidentali. Il fatto è che un’azienda pubblica dedita al perseguimento di una politica energetica propria non era ben vista dal cartello privato, per cui l’Eni veniva trattata con sufficienza.

L’Italia restava un’alleata atlantica ma voleva anche sopravvivere e svilupparsi. Laddove invece, secondo il Dipartimento di Stato USA, l’Eni non doveva interferire nel sistema di ripartizione degli utili tra compagnie multinazionali e Paesi produttori di petrolio e si doveva comportare in modo “consono” riguardo alla politica dei prezzi e delle concessioni.

Il capo dell’Eni non era pregiudizialmente avverso agli USA e all’Occidente. A riprova della genuinità della sua posizione, si può rammentare che, con l’avvento di J.F. Kennedy alla Casa Bianca, il corso degli eventi stava mutando. Nel 1962 in Italia andò a battesimo il centrosinistra e la Presidenza americana diede la sua benedizione. Si avvicinava il momento del riconoscimento ufficiale dell’Eni quale operatore internazionale e interlocutore con il quale trattare. (Il riconoscimento che a Mattei era sempre mancato). La visita del Presidente dell’Eni a Kennedy era imminente.

(La quinta ed ultima parte verrà pubblicata giovedì 26 novembre)