Il 22 Aprile di 151 anni fa nasceva a Simbirsk – ribattezzata in suo onore Ul’janovsk ai tempi dell’Unione Sovietica – un uomo scomodo e grande: Vladimir Ilich Ul’ianov.
La sua casa natale, successivamente trasformata in museo e ancora visitabile (io l’ho fatto, con sincera emozione, agli albori del secolo), è una costruzione in legno circondata da alberi ad alto fusto da cui si gode la vista del Volga che più in basso, all’ingresso della città, disegna una maestosa ansa: gli Ul’janov ci abitavano in affitto, più per scelta che a causa di quelle ristrettezze economiche che si sarebbero manifestate solo dopo la morte del capofamiglia. Volodja, che sarebbe passato alla storia con lo pseudonimo di Lenin, proveniva infatti da una famiglia colta e abbastanza agiata: il padre, matematico, ricopriva l’incarico di ispettore scolastico, la madre Mar’ja Blank, era figlia di un medico di origine tedesca ed era donna amante della conoscenza.
L’evento che segnò per sempre l’esistenza di Vladimir e dei suoi cari fu l’esecuzione, nel 1887, dell’amatissimo fratello Aleksandr, impiccato nella fortezza di Shlissel’burg per aver preso parte alla progettazione di un attentato alla vita dell’omonimo zar. Sasha e Volodja avevano temperamenti diversissimi: empatico e più estroverso (oggi si direbbe “solare”, aggettivo insulso ma alla moda) il primo, chiuso, introspettivo e testardo il secondogenito. Spesso si sfidavano in combattute partite a scacchi, un gioco di strategia cui Lenin rimase fedele per tutta la vita.
La condanna di Aleksandr costò alla famiglia l’ostracismo sociale e al fratello minore una temporanea interruzione degli studi: fu nell’isolamento di quei giorni terribili, probabilmente, che nacque nel suo cuore diciassettenne la determinazione a lottare a viso aperto contro l’oppressione e l’ingiustizia. Malgrado le avversità il futuro leader rivoluzionario si dimostrò uno scolaro eccellente, vincendo una medaglia d’oro al liceo (il brillante Sasha ne aveva ottenute ben due) e laureandosi poi rapidamente in legge.
All’incredibile forza di volontà si sommavano un notevole talento oratorio e una sicurezza di sé che incuteva soggezione, nonostante un aspetto fisico nient’affatto imponente e un viso dai tratti asiatici incorniciato da radi capelli biondicci. Non era tuttavia un intellettuale tetro e spocchioso: che amasse ridere e scherzare lo attestano numerosi aneddoti (oltre ai racconti dei pescatori di Capri, con cui volentieri si intratteneva) e da certi suoi atteggiamenti traspare una ruvida gentilezza d’animo.
Negli affetti fu tenace: tradì a quanto consta Nadya Krupskaja, moglie e collaboratrice infaticabile, ma non per capriccio borghese. Gli capitò di innamorarsi dell’affascinante rivoluzionaria Inessa Armand: chi assisté al funerale di lei, morta di colera nel Caucaso, lo descrive come un uomo affranto, distrutto.
Inutile ripercorrere le tappe della sua esistenza, fino alla prova finale: a noi interessa ricordare la duplice attività di maestro del pensiero e di instancabile agitatore rivoluzionario.
Maestro Lenin lo fu sul serio, nel senso più autentico del termine: chi si accosta, magari titubante (de Lenin nisi male, nel mondo dell’informazione contemporanea: scorrere le biografie “partigiane” di Service e Sebestyen per credere), alla lettura di opere come “Stato e Rivoluzione” (1917) scopre una logica ferrea, pagine piacevolmente scorrevoli, concetti chiari illustrati con dovizia di esempi.
Un pensatore accessibile alle masse, sempre rigoroso e mai pedante (se si eccettuano alcuni ragionamenti a tesi esposti in “Materialismo ed empiriocriticismo”); ma anche il rivoluzionario che, smentendo le credenze dei marxisti più dogmatici, dimostrò che l’elemento umano, le doti e il genio del singolo fanno la differenza, plasmano la Storia dell’uomo.
Affinché il concerto (cioè la Rivoluzione) sia un successo non bastano una grande sala dall’acustica eccellente (le condizioni rivoluzionarie) e un’affiatata orchestra di professionisti (una macchina di partito efficiente): è necessario che sul palco ci sia qualcuno in grado di dirigere al meglio i suonatori. Lenin fu, dal punto di vista rivoluzionario, un direttore ineguagliabile, perché seppe interpretare e integrare lo spartito, adeguando la sua azione alla situazione concreta (si pensi alla NEP).
Riuscì a provare agli scettici, fra i quali all’inizio figurava anche il nostro Gramsci, che l’esatta valutazione delle circostanze e un’azione decisa possono supplire al difetto di alcune condizioni reputate sulla carta essenziali: fu lui, appena sceso alla Stazione Finlandia di Pietrogrado, a rimproverare con asprezza ai compagni bolscevichi la supina accettazione del governo Kerenskij e a spronarli alla lotta contro l’opinione di ortodossi e funzionari di partito.
Questo pragmatismo – che critici in malafede tentano di far passare per opportunismo – fu il segreto della buona riuscita dell’impresa. Al pacifico borghese, allo storico organico (al sistema liberalcapitalista) Lenin fa ancora oggi paura, proprio perché fu capace di andare fino in fondo: si cerca perciò di screditarlo, accusandolo di crudeltà e nefandezze e spacciandolo per il padre putativo di Stalin, a sua volta un personaggio complesso.
Noi rifiutiamo questa paccottiglia propagandistica: Lenin fu all’occorrenza spietato, questo è certo (e talora persino ingiusto, come a Kronstadt), ma spietati erano i tempi, e spietatezza richiedeva la situazione in una Russia invasa dallo straniero e attraversata dalle armate bianche. La Rivoluzione doveva trionfare, e grazie a Lenin (e Trotzky) trionfò.
Poi, complici la malattia e una morte prematura, venne Stalin (proletario come Zhukov e altrettanto insensibile alla sofferenza umana), e la bella, gloriosa storia si sporcò di troppo sangue; ma a Vladimir Ilich noi continuiamo a guardare con ammirazione e rispetto.
Viva il Socialismo, onore agli ideali dell’Ottobre e al Primo Maggio!